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Io, invece, affermo che la verità sta così, come ho scritto: e cioè che ciascuno di noi è misura tanto delle cose che sono, quanto di quelle che non sono, e che noi siamo enormemente diversi l’uno dall’altro, perché per uno appaiono e quindi sono alcune cose, mentre per un altro appaiono e sono altre cose

Protagora

  1. IL CONTESTO STORICO-POLITICO
  2. I SOFISTI: I PROFESSIONISTI DEL SAPERE
  3. LA NUOVA FILOSOFIA SOFISTA
  4. PROTAGORA E GORGIA
  5. CONCLUSIONI
  6. PER APPROFONDIRE: VIDEO DIDATTICI
  7. PER APPROFONDIRE: I TESTI
  8. CONTINUA A NAVIGARE

IL CONTESTO STORICO-POLITICO

Ad Atene nel V secolo a.C. nasce un nuovo sistema politico: la democrazia. In un regime democratico la politica si fa attraverso il confronto – e lo scontro – di idee. Il regime democratico diventa l’occasione per l’ascesa politica di figure che puntano ad avere successo grazie alla loro capacità di ottenere un consenso intorno alle proprie posizioni politiche.


I SOFISTI: I PROFESSIONISTI DEL SAPERE

In questo contesto fanno la loro comparsa nuove figure, dei professionisti che si mettono al servizio di chi vuole fare carriera politica. Questi personaggi vengono chiamati sofisti: il termine indica che questi mettono la loro sapienza in vendita. Essi si pongono infatti come obiettivo quello di fornire quel bagaglio di abilità necessario a ottenere un consenso politico.

Nella loro concezione, infatti, le virtù sono considerate quell’insieme di qualità che permettono di eccellere nella vita pubblica.

In particolare i sofisti si distinguono per la loro capacità di insegnare l’arte della retorica, ovvero quell’insieme di tecniche in grado produrre discorsi convincenti e ottenere una larga approvazione.


LA NUOVA FILOSOFIA SOFISTA

Questo approccio porta i più importanti sofisti non soltanto a presentarsi come professionisti che educano gli aspiranti politici, ma a farsi essi stessi intellettuali e filosofi, prendendo posizione in merito alle più importanti questioni politiche e culturali.

Sui vari temi affrontati i sofisti esprimono posizioni in contrasto gli uni con gli altri, proprio perché spinti dall’idea che non esista una sola verità assoluta. In questo senso l’approccio che è comune a tutti i sofisti è piuttosto quello di mettere in discussione i valori più tradizionalmente diffusi, arrivando ad esprimere visioni filosofiche anche molto spregiudicate.

Facciamo degli esempi di questo dibattito filosofico, andando a vedere le posizioni più importanti espresse dai sofisti in merito a questioni come: la concezione della storia, la questione della religione e il problema delle leggi.

I SOFISTI E LA STORIA

I sofisti sviluppano un’idea della storia legata al concetto di progresso.
Protagora ad esempio sostiene che l’uomo è l’unico animale in grado di trasformare il mondo circostante grazie alla tecnica. La tecnica più importante è però la politica, ovvero l’arte del vivere insieme. Da questo punto di vista Protagora esalta la pòlis, intesa come sintesi del vivere in comune.
Posizione simile è espressa da Prodico, il quale esalta in particolare il valore del lavoro. Tramite esso infatti che l’uomo riesce a costruirsi ciò che “nulla gli dei hanno concesso agli uomini”.
In sintesi, l’importanza di queste riflessioni sta nel fatto che compare una visione dell’uomo come costruttore di progresso e civiltà, una concezione che nella cultura europea si affermerà pienamente solo dal Rinascimento, ovvero nell’età moderna.

I SOFISTI E LA RELIGIONE

I sofisti discutono sul problema della religione mettendo in discussione l’impostazione tradizionale.
Protagora afferma che “degli dei non sono in grado di sapere né se sono né se non sono né quali sono”. La sua è la prima affermazione filosofica di agnosticismo, ovvero sostenere l’impossibilità di affermare una verità rispetto alla religione.
Ancora più drastica è la posizione invece del sofista Crizia, che arriva ad affermare che la religione è un’invenzione dei governanti, che usano le divinità per creare leggi e comportamenti per controllare e punire la popolazione.

I SOFISTI E LA LEGGE

Uno dei temi più dibattuti dai sofisti è quello della natura delle leggi. La domanda che si pongono i sofisti infatti è: se le leggi sono inventate dagli uomini, perché bisogna rispettarle?

Di nuovo incontriamo innanzitutto Protagora il quale sostiene che l’uomo per realizzarsi ha bisogno di vivere in società, la quale non esiste senza leggi. Le leggi sono dunque il mezzo per permettere all’uomo di realizzare la propria natura sociale, in tal senso la loro giustificazione risiede nella loro utilità.

In un altro sofista, Ippia di Elide, abbiamo invece una prima distinzione che poi ritroveremo più volte nella storia della filosofia, la distinzione fra una legge naturale immutabile, e le leggi delle società umane che sono invece modificabili in base al contesto. La prima legge è valida sempre e per tutti, quindi è in grado di unificare gli uomini. Da questo punto di vista Ippia esprime una visione cosmopolita, ovvero quel sentimento di volontà di superamento dei confini per sentirsi cittadini del mondo. Dal cosmopolitismo si giunge così alla visione ugualitaria degli uomini, che nella cultura greca è una grande novità, che era stata anticipata da Democrito.

Il problema delle leggi viene affrontato infine in maniera diversa da altri sofisti.

Trasimaco di Calcedonia e Crizia sostengono infatti che la legge rappresenta solo uno strumento dei potenti per tutelare i propri interessi.

Questa posizione è ribaltata da Callicle, il quale invece sostiene che in natura esiste solo la legge del più forte, quindi le leggi degli stati sono inventate dai deboli per tutelarsi dai più potenti.


PROTAGORA E GORGIA

Con questa rapida rassegna siamo entrati in contatto con il modo dei sofisti di esprimere le proprie opinioni. A questo punto ci possiamo focalizzare sui due più importanti filosofi sofisti: Protagora e Gorgia, i quali hanno espresso due posizioni filosofiche anche in contrasto fra di loro, ma accomunate dallo stesso approccio, ovvero il voler superare l’idea che esistano verità assolute e indiscutibili.

La posizione di Protagora è definibile come relativista, quella di Gorgia come scettica. Cerchiamo di capire la differenza.

IL RELATIVISMO DI PROTAGORA

La visione filosofica di Protagora è racchiusa nella sua frase più celebre: “l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono”.

Una sentenza che a prima vista sembra un gioco di parole, ma che esprime in realtà un concetto molto chiaro: non esistono verità assolute, ma solo verità espresse dagli uomini.

La parola chiave in questa frase è “misurare”: la misura delle cose dovrebbe rimandare ad un’idea di oggettività, ma nel momento in cui Protagora afferma che è l’uomo la misura di tutto, vuol dire che ogni valore è determinato dall’uomo stesso, non esiste una “misura”, ovvero un valore universale e assoluto, ma soltanto relativo all’uomo che lo esprime.

Ma attenzione, Protagora con poche parole vuole dire molto. Quando usa la parola uomo sta infatti dicendo uomo come individuo, ma anche come civiltà e come umanità stessa.

Quando dice uomo come individuo, Protagora intende che gli uomini conoscono la realtà tramite i sensi e dunque esistono tante verità conoscitive quanto sono gli uomini.

Quando invece dice uomo come civiltà, ci vuole dire che che ogni gruppo sociale esprime una certa cultura e certi valori. Dunque non esistono valori culturali assoluti, ma che sono relativi alla civiltà che li esprime.

Infine, quando intende uomo come umanità, ci sta dicendo che l’intera realtà non si manifesta all’uomo nella sua totalità, ma è l’uomo a coglierla attraverso una certa prospettiva, attraverso certi parametri che sono legati all’uomo in quanto tale.

Riassumendo questi tre concetti, quello che vuol dire Protagora è che l’uomo giudica in realtà in base ai propri sensi, in base alla propria espressione culturale, in base alla sua appartenenza alla specie umana.

Nel complesso questa posizione filosofica è definibile come relativista perché quello che Protagora intende dire non è che non esiste nessuna verità, ma che esistono tante forme diverse di verità, ognuna legittima nella sua relatività, ovvero nel suo essere uno dei tanti punti di vista possibili.

LO SCETTICISMO DI GORGIA

Diverso è invece quello che sostiene Gorgia. La sua posizione scettica è espressa appieno nel suo scritto “Sul non essere”, un titolo che ha un chiaro riferimento polemico nei confronti di Parmenide, il quale sosteneva che solo l’essere può essere pensato e conosciuto, mentre il non essere non può essere né pensato né conosciuto.

In risposta a Parmenide, Gorgia sostiene che:

  1. L’essere non esiste. Infatti, dice Gorgia, mentre Parmenide sostiene che l’essere è unico, ingenerato ed eterno, non esiste in realtà nulla al mondo che abbia queste caratteristiche.
  2. Se anche l’essere esistesse, sostiene poi il sofista, non sarebbe in ogni caso conoscibile. L’uomo può infatti pensare anche al non essere, ovvero a cose che non esistono (gli asini che volano ad esempio): questo vuol dire che l’uomo non ha strumenti veri per distinguere fra essere e non essere, dunque non ha strumenti veri per una conoscenza adeguata delle cose.
  3. In ogni caso poi, se anche l’essere esistesse e fosse conoscibile, conclude Gorgia, esso non sarebbe comunque comunicabile

Tutti questi passaggi sono anche riassumibili nella formula: il non essere non esiste, se esistesse non sarebbe conoscibile, se fosse conoscibile non sarebbe esprimibile. Questa formula esprime appieno la cultura sofista, ovvero l’idea che attraverso l’abilità retorica si possono sottoporre a critica le posizioni altrui. Allo stesso tempo esprime la visione propria di Gorgia, ovvero l’idea che non esiste nessuna forma di verità definitiva.

Da questo punto di vista Gorgia si colloca diversamente rispetto a Protagora: mentre in Protagora abbiamo un relativismo, ovvero l’idea che esistono verità diverse e relative a chi le esprime, in Gorgia domina l’idea che nessuna verità può essere espressa. Questa posizione è dunque definibile come scettica. Lo scetticismo è infatti quell’approccio filosofico secondo il quale non si può mai esprimere un giudizio ultimo sulle cose.

GORGIA E L’ESISTENZA UMANA

In Gorgia, poi, ritroviamo anche un’altra questione, ovvero un’analisi della tragicità dell’esistenza umana. Questa analisi la ritroviamo in particolare nello scritto: Encomio di Elena.

In quest’opera Gorgia parla del personaggio di Elena, che secondo la leggenda viene presentata come responsabile della guerra di Troia.
Gorgia nella sua opera ribalta questa visione consolidata, proponendo quattro possibili ipotesi per le quali Elena non sarebbe realmente responsabile delle sue azioni.
1) Elena potrebbe aver agito seguendo il destino e quindi sottoposta a una forza più grande di lei
2) Elena potrebbe essere stata rapita da Paride e quindi costretta con la forza
3) Elena potrebbe essere stata persuasa dalle parole di Paride e le parole possono avere una forza di convincimento che non può essere contenuta
4) Elena potrebbe aver agito per amore e quindi sottoposta a un condizionamento non controllabile
La conclusione comune a queste quattro ipotesi è che, in ogni caso, Elena non ha vere colpe, perché non è lei stessa responsabile delle sue azioni, in qualche maniera è stata condizionata da qualcosa che va al di là del suo libero arbitrio.
Utilizzando il personaggio di Elena, dunque, e le abilità retoriche sofistiche, Gorgia vuole presentare l’idea che gli uomini vivono in una dimensione tragica perché non sono pienamente responsabili delle loro azioni, ma sono preda di altre forze, in balìa di un destino che non può mai essere veramente controllato.


CONCLUSIONI

Giunti questo punto possiamo trarre una serie di conclusioni sull’eredità dei sofisti.

Sulla loro stagione si è formato nel tempo un pregiudizio negativo, tanto che lo stesso termine, sofista, viene solitamente utilizzato con una connotazione critica.

Le critiche che sono state rivolte ai sofisti sono tre in particolare:

  1. Quella di aver reso la cultura una merce da vendere
  2. Quella di aver creato un modello politico immorale, da cui deriva l’idea che non esistono valori reali, ma solo la capacità spregiudicata di far valere le proprie opinioni attraverso gli artefici della retorica
  3. Quella di aver sminuito la ricerca filosofica della verità e di aver posto tutte le verità sullo stesso piano.

L’idea complessiva che emerge da queste critiche è che i sofisti siano sostanzialmente degli ingannatori, manipolatori di verità. La forza di questa critica è legata in particolare a figure come Platone e Aristotele, che hanno assunto i sofisti come bersagli polemici dei loro scritti, proponendo un’idea filosofica completamente opposto, ovvero quella che la filosofia sia la ricerca di verità stabili.

Col tempo questa concezione negativa dell’eredità sofista è stata invece ribaltata e si sono messi in rilievo soprattutto le innovazioni che i sofisti hanno prodotto. In particolare:

  1. Aver spostato l’attenzione della ricerca filosofica dalla natura e dall’essere all’uomo. I sofisti sono infatti i primi filosofi che assumono come centro della loro riflessione la natura umana e le verità culturali e sociali che l’uomo può esprimere
  2. Aver cambiato la concezione della virtù: rispetto ad un modello in cui il valore di una persona è determinato dalla nascita, dalla posizione sociale determinata dalla famiglia di provenienza, i sofisti hanno affermato che attraverso l’educazione si può affermare la propria individualità

PER APPROFONDIRE: VIDEO DIDATTICI


PER APPROFONDIRE: I TESTI

ESTRATTO DA “TEETETO” DI PLATONE

“Io (Protagora, ndr) dico che la verità è esattamente come ho scritto: ciascuno di noi è misura delle cose che sono e delle cose che non sono, ma c’è un’enorme differenza tra l’uno e l’altro, e questo proprio perché a uno appaiono in un modo, a un altro in un altro. E sono così lontano dal negare che esistano la sapienza e il sapiente, che anzi chiamo sapiente proprio quello che, se a uno di noi le cose appaiono e anche sono cattive, lo cambia e gliele fa apparire, e anche essere, buone. E tu, non rifiutare il mio discorso giocando sulle parole, ma cerca di capire con chiarezza quel che voglio dire. Per esempio, ricorda ciò che dicevamo del malato, che per lui ciò che mangia sembra ed è amaro, mentre per chi sta bene è ed appare il contrario. Ebbene: non bisogna decidere chi è più sapiente, perché questo è impossibile, e nemmeno dire che il malato è ignorante perché ha una certa opinione, e il sano sapiente perché ne ha una diversa. Quel che bisogna fare è cambiare uno stato nell’altro, perché quello di salute è migliore. Così, anche nell’educazione: bisogna far passare da un modo di essere peggiore a un modo di essere migliore. Ora, quel cambiamento lo produce il medico, coi farmaci; questo il sofista, coi discorsi. In effetti, nessuno mai riesce a far avere opinioni vere a uno che le ha false, perché uno non può pensare cose che per lui non esistono, o cose diverse dalle impressioni che ha, perché queste sono per lui vere in ogni caso. Però, uno che, per una certa disposizione dell’anima, ha opinioni cattive, si può far sì che abbia una disposizione migliore, e quindi anche opinioni migliori: e sono queste che taluni per ignoranza dicono vere, e io dico semplicemente migliori di altre, ma più vere no. E i sapienti, caro Socrate, ben lontano dal chiamarli ranocchi; anzi, li chiamo medici o agricoltori, […] Essi infatti introducono, in quelli che si ammalano, al posto di sensazioni cattive, sensazioni buone e sane, non vere; allo stesso modo i retori, quelli buoni e sapienti, fanno sì che alle città sembrino giuste le cose buone invece che quelle cattive. Questo perché per una città è giusto e bello ciò che essa riconosce per tale; ma è il sapiente a far sì che tali appaiano non le cose cattive, ma quelle vantaggiose. Per lo stesso motivo, anche il sofista che sia capace di educare in tal modo i suoi discepoli è sapiente e merita da loro grandi compensi. E così alcuni sono più sapienti di altri, ma nessuno ha opinioni false; e tu devi accettare, voglia o no, di essere misura delle cose, perché quello che ho detto salva la mia dottrina”. […]


ENCOMIO DI ELENA

Siccome l’abbondar d’uomini di merito è cosa, che ad una Città conviene, la bellezza ad un corpo, all’anima la sapienza, la virtuosa condotta a un affare; così d’un’Orazione è tutto propria la verità. Nè alcuna di queste cose può aver ornamento, che non sia di tali prerogative fornita. Egli è però giusto, che un Uomo, una Donna, un’Orazione, una Città, un affare onorati sieno, se degni d’encomio, e se non degni, ripresi. Poich’egual mancamento, ed eguale ignoranza è il riprendere le lodevoli cose, e ’l lodar quelle, che meritano riprensione. Dovere pertanto d’un uomo è il parlare secondo la verità, e prendersela contra gli accusatori d’Elena, Donna, di cui e la testimonianza de’ Poeti, che n’ebber contezza, e la celebrità del suo nome, rapportando le stragi per lei avvenute, costante han lasciato a’ posteri la memoria. Io però voglio una certa difesa introducendo nel mio ragionamento, e far dall’accuse cessar chiunque ha di lei sinistro concetto, e i bugiardi riprensori indicare, e mostrando loro la verità liberargli dall’ignoranza, in cui vivono.

Che dunque e per natura, e per sangue abbia avuto la Donna, di cui favello, il primo vanto fra quanti, e quante mai furono al Mondo più singolari, non v’ha persona, che dubiti; essendo ben manifesto, che, avendo Leda per madre, conta per genitori Tindaro e Giove, ch’è quanto a dire un uom mortale, ed un Dio, il primo de’ quali in apparenza fu Padre, in realtà il secondo; Ed era quegli il più potente tra gli uomini, questi d’ogni cosa il Sovrano. Nata dunque da sì fatti personaggi, divina bellezza sortì, la qual ricevuta non lasciò punto, che rimanesse nascosta. Che anzi molte passioni d’amore in molti svegliò tanto potendo un sol corpo su varj corpi d’uomini a grandi pensieri avvezzati: de’ quali alcuni grandezza vantavano di ricchezze, altri la gloria d’un’antica nobiltà, altri l’eccellenza del proprio valore, ed altri il merito d’un’acquistata prudenza; tutti però in contesa per impulso d’amore, o per cupidigia d’un’invincibile gloria.

Io non dirò chi fosse, e per qual cagione, e in qual maniera gli amorosi suoi voti adempisse chi Elena prese. Poichè il narrare a chi sa quelle cose, che sa, acquista ben fede, ma non reca dilettazione. Passando dunque in silenzio sì fatte circostanze di tempo, al principio mi condurrò nel mio futuro ragionamento, e proporrò le ragioni, per cui conveniente cosa era, che si facesse la spedizione d’Elena a Troja. Imperciocchè o per voler della sorte, e per comandamento de’ Numi, e per necessità del destino operò ciò, che fece, o per forza rapita fu, o da discorsi convinta, o presa da amore. Se il primo si diede, degno è d’esserne accagionato chi ne diede cagione. Ch’egli è impossibile colla provvidenza degli Uomini impedire la provvidenza d’un Dio. Nè vuol natura, che un più perfetto dall’inferiore dipenda, ma che l’inferiore dal più perfetto sia governato, e condotto. Il Superiore adunque comanda, e l’inferiore è soggetto. Or Dio è più perfetto dell’uomo e nella forza, e nel sapere, e in altre prerogative. Dunque o la fortuna, o Dio s’incolpi, o nella sua disgrazia Elena si compatisca. Se fu per forza rapita, e fuor d’ogni legge necessitata, ed offesa; cosa è pur chiara, che quel medesimo, che la rapì, e che l’offese, l’ingiustizia commise. Poichè se rapita Ella, ed offesa disavventure sofferse, degno è certamente quel barbaro, che a così barbaro attentato s’accinse, d’esserne e dalla legge, e da’ discorsi, e in realtà gastigato: dalla legge co’ disonori, da’ discorsi coll’accuse, e in realtà dalle pene. E se necessitata Ella fu, e vedova della Patria rimase, ed orfana d’amici, come più non merita compatimento, che maldicenze? Poichè se il rapitore gravi cose tentò, Elena gravi cose sofferse, giusto è, che questa pietà ne tragga, e quell’altra malevolenza. Che se poi da tale eloquenza fu persuasa, che la sua mente ne restasse ingannata, non è pur difficile intorno a questo difenderla, e liberarla dall’accuse, che a lei si fanno. Ella è l’eloquenza un gran Principe, che in un picciolissimo, e assai vil corpo divinissime imprese fa eseguire. Ed ha tal forza di sottrarre alcun dalla tema, d’alleggerirgli il dolore, di cagionargli allegrezza, e d’accrescergli compassione. Il fatto adunque fu tale, quale io vi mostrerò. Ma fa d’uopo con ornamento agli Uditori narrar le cose. La Poesìa tutta io la giudico, e la chiamo un’Orazione fatta con metro, colla quale negli Uditori fa nascere ed un orrore cinto di tema, e una misericordia piena di lagrime, e amica delle doglianze. Nell’opere altrui, e nella fortuna,ve disavventura degli altrui corpi le proprie passioni sente l’anima per mezzo di tai discorsi. Or dunque da uno ad un altro ragionamento passando, dico, che tai diletti nascono dall’eloquenza, che avendo in sè quanche cosa del divino, quando son d’allegrezza, e quando di rammarico apportatori. Ed all’oppenione dell’anima una certa portentosa forza è per natura attaccata, che molce, e persuade, e con incantesimo anche trasforma. Difficili però l’arti dell’incantesimo, e della magia si trovano, le quali non sono, che peccati dell’anima, ed inganni dell’opinione. Ma quanti intorno a varie cose l’altrui intelletto convinto hanno, e tuttavia convincono, col tessere ne’ lo discorsi bugie! Poiché, se tutti di tutte le cose passate avessero memoria, e intorno alle presenti, e alle future accorgimento; non in diversa maniera, essendovi ragion eguale, che se cose fussero al dì d’oggi avvenute, potrebbero facilmente rimembrar le passate, le presenti comprendere, e indovinare il futuro; siccome fan molti, che intorno a molte cose somministrano all’anima un’opinione, e non ferma, coloro, che s’appoggiano ad essa, rimangono circondati da un’incostante, e non secura fortuna. or dunque qual ragion proibisce, ch’Elena similmente, allorchè giovane era, quasi per violenza rapita fosse? Tanta è l’arte del persudere, che tira d’accorso un animo non altramente disposto. Ciò è pur vero, che la necessità, siccome non ha delitto, così al contrario ha una medesima forza. Era tale il discorso da poter convincere: la convinse, ed obbligolla ad ubbidire non meno a’ detti, che a prestare a’ fatti il consenso. Dunque ingiustamente operò, chi la persuase, avendola violentata: ma quella, che dal discorso, facesse sull’anima quell’impressione, che volle, d’uopo è comprenderlo prima dal raziocinio di coloro, che delle cose van disputando, i quali un parer riprovato, e un altro avvaloratone, fanno apparir chiare agli occhi dell’immaginazione le cose oscure, e incredibili; in secondo luogo dalle forensi dispute, nelle quali una sola argomentazione prodotta dall’artifizio, e non dettata dalla verità, può molta turba di gente piegare, e convincere; in terzo luogo dalle filosofiche quistioni, nelle quali dimostrasi la velocità della mente, che forma di qualche opinione una credenza di leggieri mutabile. Il medesimo potere ha però un robusto ragionamento sulla natura dell’anima, che ha la composizione d’un veleno sulla formazione de’ corpi. impercioccè siccome alcuni veleni or fanno una cosa uscir di corpo, or un’altra, poichè talvolta levano il male, talvolta la vita, così tra’ discorso sovente quale ha cagionato dolore, e quale dilettazione, quale paura, e quale ardimento negli uditori, e molti altresì con una falsa persuasiva avvelenata hanno l’anima, e affascinata. Dunque se fur le parole, ch’Elena persuasero, non dicasi già, che ingiuste cose operasse, ma che piuttosto fosse infelice. Alla quarta ragione poi con quest’altro argomento rispondo. S’egli fu Amore, che tali avventure produsse, non difficilmente la taccia schiverà del reato, che si pretende da lei commesso. Imperciocchè non quella colpa incorriano, che da noi fu voluta, ma quella, che a noi il caso apparecchiò. In nuove maniere vien l’anima per mezzo della vita percossa. subitamente che bellicosi corpi, e guerriero ornamento vediamo d’un’armatura di bronzo, e di ferro, o sia per attaccare altrui, o per difender noi stessi, se ne spaventa la vista, e turba talmente l’anima, che molte volte certuni per un futuro pericolo, comechè non imminente, inorriditi sen fuggono. La verità della legge più fortemente è abbattuta dal timor d’una cosa, che la vita ci rappresenta, la cui sorpresa ne fa sprezzare l’onesto, che la medesima legge propone, e il bene che dall’equità ne deriva. alcuni per certo, formidabili cose vedendo, la lor presenza di spirito in un istante perdettero: tanto è pur vero, che la paura i lor pensieri avvilì, e disanimati gli rese. Molti altresì in gagliarde malattìe caderono, in gravi afflizioni, ed in pazzie incurabili: tanto impresse la vista nel loro intelletto le immagini degli oggetti veduti. Molte cose intanto si tacciano tra quelle, che metton paura, giacchè son simili alle già dianzi accennate: Certo i Pittori, poichè un sol corpo, ed una sola figura hanno a perfezion lavorata da molti colori, e corpi, la vista dilettano; ma la struttura de’ simolacri, e la formazion delle immagini a misura, che rendono agli occhi gioconda visione, così pur fanno d’una cosa fuggire, e d’un’altra desiderare l’aspetto. Molti in somma sono coloro, ne’ quali da molti oggetti s’eccita amore, e desiderio.

Qual maraviglia adunque, se l’occhio d’Elena dilettatosi del corpo di Paride4 un certo ardore, e veemenza d’affetto nel di lei animo cagionò? O egli è un Dio, che servesi del poter degli Dei; e come sarà capace un inferior di scacciarlo, ed un mortal di resistergli? O è questo un morbo degli uomini, e un’ignoranza dell’anima, e non come peccato dovrà riprendersi, ma riputarsi disgrazia. Sorpresela questa, sì la sorprese per insidie all’anima ordite, non già per deliberazion della mente; per necessità d’amare, non per disposizioni da lei meditate. Come mai dunque la riprensione d’Elena può giusta chiamarsi? la quale o presa fosse da amore, o da parole convinta, o per violenza rapita, o da divina necessità sforzata, ad ogni modo senza colpa rimase.

Io con parole ho levata a questa Donna l’infamia: in quella legge mi son fermato, che dal principio del mio ragionamento m’avea proposta: l’ingiustizia dell’accusa a lei fatta, e la sciocchezza dell’altrui opinione sforzato mi son di distruggere: ho in somma un’Orazione voluto scrivere, che ad Elena servisse d’Encomio, ed a me stesso d’un dilettevole trattenimento.


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