Proponiamo di seguito alcuni brani estratti relativi al conflitto che divide l’Europa fra 1618-1648. Per leggere il post sulla guerra dei Trent’anni clicca qui.

S. Valzania, Wallenstein. La tragedia di un generale nella guerra dei Trent’anni

La guerra che inizia con la defenestrazione di Praga ha caratteristiche ben diverse dai conflitti moderni. Anzitutto sono differenti i contendenti, le entità politiche che si contrappongono. Gli Stati nazionali non ci sono ancora e quindi non vengono convogliate nel conflitto tutte le energie di un paese. A combattersi sono i re, o per lo meno i principi, e lo fanno contando sulle proprie risorse personali. Non esistono ricchezze demaniali alle quali attingere denaro per la guerra, il concetto di interesse pubblico non si è ancora formato, l’elaborazione giuridica non ha posto una differenza chiara fra il tesoro personale del monarca e quello del suo regno. Per opporsi a Ferdinando II i protestanti boemi convocano una nuova dieta, dichiarano decaduto il re appena nominato e chiamano sul trono l’unico altro pretendente alla corona di Praga e cioè Federico di Wittelsbach, elettore del Palatinato. Nel conflitto che sorge fra i due monarchi è coinvolta in modo consapevole una parte ristretta della società; la stragrande maggioranza lo subisce, spesso senza conoscerne le cause, a volte senza essere capace di distinguere un esercito dall’altro. Alla grande massa dei contadini la guerra appare molto simile a una calamità naturale, tanto da essere rappresentata come uno dei cavalieri dell’Apocalisse, insieme alla peste e alla carestia: un flagello mandato dal cielo a punizione degli uomini per i loro peccati. In questo contesto la coscrizione obbligatoria non è neppure concepibile, quello del soldato è un mestiere come un altro, al quale si accede di solito per sfuggire la durissima vita dei campi. L’aristocrazia ha perso il privilegio esclusivo della funzione militare che le è stato caratteristico nel Medioevo, semmai le rimane un ruolo significativo nella formazione dei quadri; larga parte degli ufficiali vanta infatti origini nobili. Dato che non esistono eserciti permanenti, quando si deve affrontare una guerra la massa dei combattenti è composta da soldati arruolati per l’occasione, senza alcun riguardo alla loro provenienza nazionale. Gli uomini si cercano dove ce n’è abbondanza, nelle regioni più povere del continente, nelle quali il desiderio di tentare l’avventura di una vita diversa è più intenso. […] Il giuramento è fatto alla bandiera, che rappresenta il reparto nel quale la recluta viene inserita e al quale promette una fedeltà che per via gerarchica si trasferisce fino a colui nel cui nome la guerra è combattuta. L’arruolamento è effettuato dai colonnelli, i comandanti dei reggimenti o delle unità equivalenti, attraverso propri delegati. L’unico problema in tale attività consiste nell’esserne autorizzati dal legittimo governo del luogo dove l’arruolamento avviene, o nell’avere la forza per agire impunemente. Assoldare uomini significa, infatti, togliere braccia al lavoro delle campagne e quindi impoverire la regione dove si agisce, in particolare in tempi di crisi demografica. […] Per creare un esercito quando ne sorge la necessità occorrono comunque specialisti e molto denaro. Quest’ultimo manca sempre, ma in qualche modo ci si arrangia: si usa quello che c’è per gli ingaggi e le prime paghe e si spera che la guerra duri poco e culmini in una vittoria tale da farne pagare per intero le spese al soccombente, circostanze queste che si verificano assai di rado. Per via del soldo non versato a causa della mancanza di denaro, le truppe del Cinque e del Seicento sono sempre sull’orlo dell’ammutinamento. Smobilitare un esercito risulta di solito difficile a causa della massa di arretrati che debbono essere pagati. Quello che i generali chiedono in continuazione ai loro referenti politici2 sono i soldi con cui soddisfare le richieste dei soldati. Mai nella storia è stato più immediatamente evidente che la materia prima per fare la guerra è il denaro. Può capitare che vittorie ottenute con sacrifici enormi non vengano sfruttate perché i soldati non sono disponibili a continuare a combattere senza prima aver ricevuto almeno un anticipo sulle loro spettanze. A volte la truppa forza la mano ai propri comandanti, oppure si procura da sola quello che giudica essere il dovuto, senza riguardo per il modo nel quale lo fa. […] Se tenere sotto controllo un esercito in armi rappresenta un’attività difficile, liquidarlo lo è ancora di più. Infatti, non basta versare un anticipo sul soldo arretrato, occorre saldare il debito per intero e i mezzi per farlo non esistono praticamente mai. È necessario allora aprire trattative estenuanti, nel corso delle quali le paghe continuano a correre. Alla fine della guerra dei Trent’anni gli eserciti in armi, che di fatto hanno il controllo di tutto l’impero tedesco, sono in grado di esigere per la propria smobilitazione somme ingenti, il cui reperimento rappresenta uno dei problemi più gravi per il conseguimento della pace. I principi, i re e l’imperatore coinvolti nel conflitto hanno un controllo sulle armate che combattono in loro nome molto meno stringente di quello esercitato dai governi moderni. […] In buona sostanza un esercito costituiva qualcosa di molto simile a una gigantesca impresa privata che operava sulla base di quello che oggi definiremmo un appalto: dal reclutamento all’equipaggiamento, dalla logistica3 al munizionamento. […] Dato che ogni colonnello gestisce una sorta di impresa, è responsabile anche della sua organizzazione economica. È lui che riceve le paghe, quando arrivano, e le distribuisce ai suoi uomini. Un abuso comune consiste nel dichiarare una forza superiore a quella effettiva, in modo da ottenere un compenso maggiore del dovuto. Ciò rende molto difficile ricostruire le reali dimensioni dei reparti impiegati in battaglia. Per strano che possa sembrare, soldati selezionati e formati in questo modo si dimostrano di solito fedeli a chi li comanda, in particolare ai colonnelli, che trasferiscono la loro fedeltà ai generali, a meno che questi ultimi non siano figure del prestigio e dell’autorità di un Tilly4, di un Pappenheim o più ancora di un Gustavo Adolfo, il cui ascendente diretto sulle truppe è indiscutibile. Al momento della verità Wallenstein venne invece abbandonato dai suoi soldati come dai suoi ufficiali, che si dimostrarono più fedeli all’imperatore che a lui. La fedeltà ha comunque i suoi limiti. Durante la guerra dei Trent’anni diventa prassi comune inquadrare nei ranghi dell’esercito vittorioso i prigionieri fatti in battaglia, ma si tratta di solito di tedeschi che continuano a esercitare il loro mestiere o trovano un modo per vivere insieme ai connazionali. Il reclutamento è diventato infatti continuo e indifferenziato in tutto l’impero. Capita anche che interi eserciti si dissolvano a causa delle diserzioni, ma questo avviene raramente e solo quando si manifestano condizioni di particolare disagio e demoralizzazione alle quali i comandanti non riescano a porre rimedio. Truppe in fuga, che non hanno neppure il tempo di procurarsi da mangiare, si sbandano con facilità. Spesso questi eserciti si trovano a sopravvivere con l’unica risorsa del saccheggio in territori già molto provati dalla guerra, o addirittura sono costretti, durante gli accantonamenti prolungati, a ritornare alle attività contadine e a lavorare la terra per procurarsi il cibo. Le dimensioni di armate composte da truppe arruolate fra gli emarginati e sostenute da sistemi logistici rudimentali non superano praticamente mai le trentamila unità. Anche nelle poche occasioni in cui si vedono concentramenti di quelle dimensioni essi si realizzano in vista di grandi battaglie, per le quali vengono riunite formazioni che di solito operano in modo autonomo. A Nördlingen il confronto avviene fra due eserciti protestanti e due imperiali; in più, entrambi gli schieramenti possono contare su contingenti minori fatti accorrere in occasione della battaglia. La cifra di quindici, ventimila uomini indicata per i maggiori eserciti in fase operativa non deve però ingannare; essa si riferisce, infatti, ai combattenti. Se i settori logistici non sono sviluppati significa che i bisogni della truppa sono soddisfatti in una forma piuttosto primitiva, più simile a quella di cui disponevano le orde barbariche che a quella delle legioni romane. Al seguito di ogni esercito seicentesco si sposta una comunità allargata comprendente tutti coloro che, a qualunque titolo, svolgono i servizi necessari alla sua esistenza o grazie a esso sopravvivono, non ultimi donne e bambini. È stato calcolato che per ogni soldato ci siano sempre almeno due persone al seguito, ma di solito gli accompagnatori sono più numerosi ancora. […] Per parte loro, le salmerie5 altrui rappresentano un obiettivo molto appetibile per la truppa. Reparti vittoriosi sospendono l’inseguimento degli sconfitti in fuga e si sbandano per lanciarsi a depredare gli averi del nemico, e così facendo mettono in discussione vittorie già conquistate. Si tratta di un problema che gli eserciti si portano dietro dall’antichità. Il saccheggio del campo avversario è stato per lunghissimo tempo il sogno di ogni soldato e una delle ragioni che lo conducevano in battaglia. […] Che guerra combatte questo tipo di esercito? Certo una guerra lenta e di bassa efficacia, anche se devastante per i territori che attraversa. Del tutto incapaci di tenere sotto controllo una regione, amica o nemica che sia, gli eserciti seicenteschi ne devono in ogni caso trarre di che vivere, e di solito lo fanno nella maniera più brutale. Durante la guerra dei Trent’anni una delle maggiori preoccupazioni dei generali diviene presto quella di guidare i propri eserciti ad approvvigionarsi in regioni che siano ancora abbastanza ricche da poterli sostenere, ma ne hanno sempre meno a disposizione. La prova che si suole portare a dimostrazione del fatto che Tilly non ordina né il sacco né, tanto meno, l’incendio di Magdeburgo è che la città gli serve nelle migliori condizioni possibili per accantonarci l’esercito durante l’inverno che si avvicina. Infatti, dopo la sua distruzione accidentale egli si vede costretto a ritirarsi verso sud. Gli unici obiettivi alla portata di eserciti piccoli, lenti e poco disciplinati sono le città, così che la guerra è spesso d’assedio e consiste nello strapparsi l’un l’altro il controllo dei centri più ricchi e strategicamente rilevanti, come quelli che dispongono dei ponti per attraversare i fiumi maggiori o che controllano fortezze in grado di bloccare passaggi importanti. Anche le battaglie vengono combattute quasi sempre per proteggere una città o per liberarla da un assedio in corso.

G. Spini, Storia dell’Europa moderna

ormai la guerra è arrivata a un punto tale, che se anche gli eserciti continuano ad inseguirsi l’un l’altro e a infliggere nuove torture e nuovi orrori alle misere popolazioni, non vi può essere alcun dubbio sul risultato finale. L’orrenda realtà di una catastrofe generale del Vecchio continente, la più spaventevole, senza dubbio, che esso abbia subito dall’età delle invasioni barbariche in poi, si impone all’occhio di qualsiasi osservatore. L’Europa sanguina da ogni parte, e non v’è parola umana che basti a dipingerne lo strazio e l’abiezione. Non c’è più governo belligerante che non sia arrivato allo stremo delle sue risorse finanziarie, e quindi non c’è più governo che sia in grado di pagare i propri soldati. E ciò significa che l’esempio infernale del Wallenstein ha fatto ormai scuola da per tutto. Anche la Svezia, da cui, nella confusione seguita alla sconfitta di Nordlingen, il re di Polonia, Ladislao IV, figlio di Sigismondo III, ha preteso la retrocessione dei porti prussiani, ha dovuto accordargliela, perdendo così la più cospicua delle proprie entrate. Quindi per proseguire la guerra, ha dovuto ordinare anch’essa ai propri generali di far vivere le truppe alle spalle del Paese da loro attraversato. Dove sono più i giorni in cui l’esercito del re d’oro arrivava accolto come liberatore, dopo le atrocità dei masnadieri del Tilly, e consacrava con la propria disciplina la fama di umanità del suo illustre condottiero? Demoni scatenati sono diventati gli svedesi, come gli spagnoli, gli imperiali, i francesi, ché più nessuno v’è in Europa che faccia distinzione di amici e nemici o nutra le sue truppe altrimenti che col saccheggio e il riscatto. Col passare del tempo anzi, e l’incancrenirsi della guerra, non c’è più esercito che non si sia trasformato in un’orda barbarica, piena di migliaia di donne, di ragazzi, di servitori, di trafficanti, di saccomanni, tutti confusi insieme in una stessa melma di vizi, di malattie, di atrocità, di turpitudini. Nel 1647, durante un’avanzata degli eserciti franco-svedesi nella vallata del Danubio, si calcolerà che essi trascinino seco un centottantamila persone, di cui una parte minima soltanto è formata di autentici combattenti. Cosa facciano questi sciami di cavallette affamate, in un Paese come la Germania, già distrutto dal passaggio di tanti altri eserciti, è facile immaginarlo: per non morire di stenti, debbono aguzzare l’ingegno onde scovare l’ultimo boccone di pane, dare la caccia all’ultimo capo di bestiame ancora vagante per la campagna, torturare a morte ogni contadino trovato per via, per fargli confessare il nascondiglio del suo ultimo sacchetto di grano. […] Vi sono regioni, come la Boemia, il Palatinato, il Brandeburgo, la Slesia, dove la guerra ha infuriato senza soste per anni interi, e in cui le campagne hanno subito una devastazione sistematica non una o due volte, ma quattro, sei, dieci volte consecutive. In paragone alle campagne, le città sono state molto più fortunate. Ma ognuna di esse ha dovuto provare ripetutamente la stretta dell’assedio, con le sue interminabili settimane di fame, con le epidemie immancabilmente provocate dal refluire entro le mura di folle terrorizzate dal contado, coi ricatti delle soldatesche minaccianti sacco e fuoco, qualora gli abitanti non consegnino gli ultimi oggetti preziosi o gli ultimi loro denari. Quando poi, al termine di una resistenza disperata il nemico non si è rovesciato come un torrente devastato entro i bastioni della città, empiendo tutto di strage e di rovina. Magdeburgo, oltre al saccheggio del Tilly, ha dovuto subire altri dieci assedi. Lipsia è stata assediata cinque volte. Alla fine della guerra, si constaterà che i sedici milioni di abitanti, che vivevano in Germania ai primi del Seicento, si sono ridotti a sei o sette soltanto. In alcune zone, il disastro è ancora più orrendo. La Boemia ha perduto tre quarti dei propri abitanti; il Württemberg ne ha persi i cinque sesti; il Palatinato, ne ha persi i nove decimi. […] L’Europa è mortalmente stanca, mortalmente disillusa, mortalmente avvelenata. Non si è visto forse lo stesso sommo pontefice, Urbano VIII, appoggiare la Francia contro la Spagna, cioè consentire tacitamente alle scomunicate alleanze del cardinale di Richelieu? Nel campo prima occupato dalla fede religiosa, s’impianta la selva barbarica della superstizione. Si crede molto meno in Dio di un tempo: in cambio si crede infinitamente più nel demonio, nei deliri tenebrosi della stregoneria, dell’astrologia, degli incantesimi. Più crescono anzi le sofferenze, più le menti stravolte prestano fede all’assurdo. L’Europa conosceva già le scene atroci dei processi delle streghe. Ma ora, nella Germania insanguinata, il principe vescovo di Würzburg, fra il 1623 e il 1629, manda al rogo qualcosa come novecento streghe e stregoni, fra cui dei bambini non ancora decenni. Seicento vittime si contano a Bamberga nel 1625-30: un migliaio nel Principato salesiano della Neisse nel 1640-1641. In Lorena un solo persecutore di streghe si vanta di averne sterminate novecento.

C.R. Friedrichs, La guerra dei trent’anni

Nonostante la copiosità delle informazioni locali, è stato comunque quasi impossibile raggiungere un accordo storiografico sull’impatto generale della guerra dei Trent’anni sulla Germania e sui paesi limitrofi. Non che i tentativi siano mancati: per oltre un secolo gli storici hanno discusso sulle conseguenze economiche, sociali e demografiche della guerra. Il dibattito venne inizialmente sollecitato, verso la metà del XIX secolo, da due opere letterarie. La prima è il Simplicissimus di Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen. Sebbene scritto all’inizio degli anni Sessanta del ‘600, quest’opera, uno dei primi romanzi picareschi, fu trascurata fino al XIX secolo, quando le sue strazianti descrizioni dell’esistenza durante la guerra dei Trent’anni iniziarono ad attrarre l’attenzione d’un ampio pubblico. L’altro scritto di un certo peso fu il Bilder aus der deutschen Vergangenheit (Scene dal passato della Germania) di Gustav Freytag, il cui terzo volume, originariamente pubblicato nel 1859, combinava particolari accuratamente documentati con superficiali generalizzazioni sulle devastazioni economiche e morali prodotte dalla guerra. L’impatto di entrambe queste opere venne rafforzato dai testi di alcuni storici poco prudenti, le cui affermazioni accreditarono quello che è stato definito il “mito della furia onnidistruttrice della guerra dei Trent’anni”. Altri studiosi, però, si sono preoccupati di confutare questo mito, ricorrendo ad attente ricerche locali per ribadire come la quantità di morte e distruzione attribuita alla guerra sia spesso stata esagerata. Le prime stime, secondo cui la guerra avrebbe distrutto metà o addirittura i due terzi della popolazione tedesca, non sono più accettate. Stime più recenti sono molto più caute, ipotizzando che la popolazione del Sacro romano impero sia calata di una percentuale tra il 15 e il 20%, dai 20 milioni prima della guerra ai 16-17 del dopoguerra. Né le perdite della popolazione erano necessariamente permanenti: i decenni successivi alla guerra assistettero a un considerevole incremento della popolazione, e alcuni studiosi ritengono che già nel 1700 si fosse recuperata la situazione demografica d’anteguerra. Le medie variano molto da regione a regione. La Germania nord-occidentale, che dopo i primi anni non fu più teatro di operazioni militari, non subì praticamente nessuna perdita di popolazione, mentre le zone di guerra di Meclemburgo, Pomerania e Württemberg persero più di metà dei loro abitanti. La perdita demografica era sempre più sensibile nei villaggi che non nelle città, le mura delle quali di solito le salvavano da distruzioni gratuite: il sacco di Magdeburgo nel 1631 fu un grosso trauma per i contemporanei, in parte perché costituiva un’eccezione a questa regola di massima. In molti casi, inoltre, ciò che sembrava una perdita di popolazione era in realtà un trasferimento di popolazione: ai villaggi che si svuotavano corrispondeva di solito un flusso di rifugiati in cerca di protezione nelle città limitrofe. Così nel 1637, quando la carestia e le epidemie si abbatterono sulla campagna della Sassonia, fu riferito che oltre 4.200 persone avevano cercato rifugio a Lipsia – aumentando temporaneamente la popolazione locale di almeno un terzo. Non c’è dubbio, comunque, che l’Europa centrale subì effettivamente, nell’arco di una generazione, un netto declino demografico. Le ragioni esatte di tale declino non sono sempre determinabili, ma un fatto è certo: la morte per azioni belliche costituì in questo scenario solo un elemento minore. Furono molto più micidiali la mancanza di viveri e le esplosioni di epidemie collegate al conflitto. Gli episodi di mortalità più impressionanti dipendevano dalla peste bubbonica, che nel corso del conflitto scoppiò a più riprese in molte zone dell’Europa centrale. La città di Nördlingen nella Svevia del nord illustra efficacemente l’effetto letale della peste. Fra il 1619 e il 1633 la media era stata di 304 morti all’anno fra gli abitanti della città, ma nell’anno dell’epidemia – il 1634 – la mortalità si incrementò di sei volte tanto: un totale di 1.549 abitanti morì, insieme a più di 300 persone all’epoca rifugiate in città. Sarebbe comunque impreciso affermare che tutte le morti per peste dipendessero dalla guerra. Molte malattie epidemiche furono diffuse dagli spostamenti di soldati o di civili infetti, ma non la peste.

Sigfrid H. Steinberg, «The Not So Destructive, Not So Religious, and Not Primarily German War»

Le varie guerre combattute in Europa tra il 1609 e il 1660 decisero l’esito della disputa tra le dinastie degli Asburgo e dei Borbone. […] Alla fine, l’abolizione dell’egemonia asburgica affermò il principio dell’equilibrio delle potenze, che da allora in poi si sarebbe contrapposto a ogni tentativo di imporre il dominio di un singolo stato sull’Europa. Gli effetti immediati della maggior parte delle guerre furono trascurabili; se considerati in modo cumulativo e indiretto, furono invece enormi. Dal punto di vista morale, l’età del razionalismo affermò l’eguaglianza tra le chiese cristiane e, implicitamente, la libertà di religione e di pensiero; dal punto di vista economico, l’età del mercantilismo liberò l’Europa dalla maledizione dell’oro americano che aveva devastato l’economia del sedicesimo secolo; dal punto di vista sociale, l’età dell’assolutismo dissolse la struttura feudale della società. In tutta la storia europea, è l’esempio migliore di risoluzione di un conflitto, ebbe di suo un grande successo.

La concezione tradizionale della guerra dei trent’anni si basa su due gruppi principali di fonti: documenti di deliberata propaganda ufficiale e testimonianze private involontariamente parziali. Le prime riflettono i pareri delle potenze vincitrici – Francia, Svezia, i Paesi Bassi, il Brandeburgo; le seconde i pareri della classe media istruita, che fu la più colpita dagli sconvolgimenti economici dell’epoca. Il fatto che queste distorsioni abbiano potuto essere considerate credibili dipende forse da due difetti delle scuole degli storici tedeschi del diciannovesimo secolo: volontariamente o meno, usarono gli interessi politici della monarchia prussiana come criterio per giudicare l’evoluzione della storia tedesca; e preferirono fonti narrative e documenti dispositivi a documenti di carattere amministrativo ed economico.

[…] La stessa espressione «guerra dei trent’anni» è determinata da una cattiva comprensione degli eventi. Gli autori del diciassettesimo secolo parlano degli avvenimenti militari della prima metà del secolo come «guerre», «bella» al plurale, e distinguono chiaramente tra il «bellum Bohemicum», il «bellum Suecicum», e così via. Il numero «trenta» e il termine «guerra» al singolare paiono apparire per la prima volta nel De statu imperii Germanici di Pufendorf (1667). Uno dei pamphlet più vivaci della scienza politica del diciassettesimo secolo, ancora molto godibile, il suo successo fu immediato ed esteso […]. Ci sono già qui tutte le note tesi degli storici successivi: la rivolta boema del 1618 come l’inizio, la pace di Vestfalia come la fine della guerra; il carattere religioso del conflitto; la sua estensione su tutto il territorio tedesco; l’ignorare il contesto europeo della guerra; la crisi e l’esaurimento economico; e l’insinuazione che l’Austria fosse una potenza straniera come la Francia o la Turchia.

Georg Schmidt, La guerra dei Trent’anni

La guerra dei Trent’anni è stata di volta in volta definita come «conflitto fra due blocchi di potenze», «guerra di formazione dello stato», «lotta per il potere cetuale o assolutistico», «guerra di religione». Tali modelli di classificazione […] non si escludono a vicenda, ma […] si integrano l’un l’altro e aiutano a collocare gli avvenimenti nei processi di sviluppo di lungo periodo.

Ma quanto durò la guerra dei Trent’anni? Sembra una domanda banale, ma la risposta non è immediatamente evidente. Gli avvenimenti e gli sviluppi succedutisi fra la defenestrazione di Praga nel 1618 e la pace di Vestfalia nel 1648 non costituiscono una unità inderogabile. Quell’arco temporale si frantuma in almeno 13 guerre e 10 trattati di pace. Le potenze o i gruppi di potenze mutano in quegli anni, così come mutano i loro scopi. Quelle successioni disparate e confuse di avvenimenti sono assurte a «guerra dei Trent’anni» soltanto grazie alle associazioni mentali operate dagli osservatori contemporanei e dagli storici che le hanno analizzate. […] È stato perciò proposto di sostituire la categoria «guerra dei Trent’anni» – a quanto si dice troppo riferita alla Germania – con denominazioni più aperte quali «epoca delle crisi e delle guerre europee» oppure «crisi generale del Seicento». Ma cosa se ne guadagnerebbe? Nelle pagine che seguono ci si atterrà alla categoria tradizionale di «guerra dei Trent’anni», una categoria puramente formale ma proprio per questo più incisiva. Questi i motivi della scelta:

  • si tratta di una categoria cronologica;
  • essa vale ancora oggi a trasmettere l’orrore e il raccapriccio del contemporanei;
  • collega sostanzialmente gli avvenimenti politici e militari che ebbero luogo in Germania fra il 1618 e il 1648;
  • in quegli anni le lotte per la forma politica e confessionale dell’impero divamparono senza tregua;
  • infine, essa ha scavato una profonda cesura nella coscienza del popolo tedesco.

[…] La Spagna, la Danimarca, la Svezia e la Francia intervennero direttamente nel conflitto, altri stati indirettamente. Ma si trattò per questo di una guerra europea, combattuta per un complesso di obiettivi e un modello di ordinamento che possiamo dire «europei»? Certo: la guerra di liberazione olandese o le guerre egemoniche tra Spagna e Francia, Svezia e Danimarca, erano intimamente connesse con gli eventi tedeschi, ma risalivano ad altre cause e approdarono a soluzioni autonome. Se davvero in Germania si fosse trattato di una lotta fra le tre «potenze universali» – la casa d’Asburgo, la Svezia e la Francia – per la supremazia in Europa, allora questa guerra non avrebbe avuto termine proprio nel 1648. Ci fu pace soltanto in Germania, non in Europa, e la questione di una possibile supremazia rimase irrisolta: basti qui richiamare alle guerre di Luigi XIV di Francia (1643-1715) o di Carlo XII di Svezia (1682-1718).

Josef V. Polišenský, La guerra dei trent’anni

Itrattati [di pace del 1648] non furono, né potevano essere, l’espressione di una verità che ci è stata rivelata solo dal passare del tempo: la guerra dei trent’anni rappresentò la chiusura di una fase della storia del mondo, e la pace di Vestfalia inaugurava un’epoca in cui questa storia diviene di fatto unitaria, comprendendo in sé l’intero continente europeo e i territori d’oltremare che dipendevano dalle potenze marinare. In quale modo poté verificarsi tale fenomeno? Fu soprattutto grazie ai cambiamenti apportati dalla guerra alla struttura sociale dell’Europa, di una società cioè che sottoposta alla pressione degli avvenimenti del conflitto si rese conto per la prima volta della propria esistenza e della propria fondamentale unitarietà. Per un periodo più o meno lungo di tempo la guerra coinvolse tutti gli Stati europei, con l’unica eccezione forse dei domini ottomani nel Sud-est, la cui influenza non fu comunque indifferente per il suo corso. L’intero continente si era diviso in due campi in guerra l’uno contro l’altro, nonostante il fatto che entrambe le coalizioni fossero tutt’altro che solide e alcuni paesi fossero incerti sulla parte da prendere o passassero dall’una all’altra. Il fatto poi che una strategia veramente europea fosse assai più evidente nei progetti e nella propaganda che nell’effettiva realtà […] non fa che ribadire quest’impressione.

Alcuni studiosi hanno messo in dubbio che la guerra fosse di fatto abbastanza importante da poter costituire da sola un argomento preciso di studio storico (il più recente è stato S.H. Steinberg); altri la considerano come il primo passo verso un conflitto mondiale. La verità sta sicuramente nel fatto che il modo di vedere tradizionale, secondo cui la guerra fu una lotta iniziata ad un livello locale fino a trasformarsi in qualcosa di «generale», è errato. Già negli anni della «guerra boema» c’era qualcuno che rifletteva sul complesso di rapporti che impediva all’Inghilterra e all’Olanda di rispondere alle richieste d’aiuto dei cechi, poiché questi due «alleati naturali» erano in attrito per i diritti di pesca nei mari tra la Scozia e la Groenlandia e per la divisione degli ex territori portoghesi nelle Indie orientali.

[…] La storia generale della guerra è quella di un cozzo tra due blocchi di potere, che collega la prima rivoluzione borghese nei Paesi Bassi del secolo XVI a quella inglese del XVII. Questo cozzo fu provocato da una crisi centroeuropea che fu soprattutto politica i cui fattori economici però, come ha dimostrato un recente studio sull’inflazione in Italia e in Germania tra il 1619 e il 1623, stavano appena nascosti sotto alla superficie. […] Alla fine del conflitto uno dei «modelli» – quello spagnolo – era stato eliminato, e uno dei «problemi» – quello dei Paesi Bassi – era stato risolto.

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