Nel 2020 usciva The Last Dance, docuserie che ripercorreva le gesta dei Chicago Bulls di Micheal Jordan. Dietro al racconto sportivo emerge una complessità filosofica che proviamo ad indagare
The Last Dance, come praticamente tutto il mondo sa, ripercorre le vicende dei Chicago Bulls di Micheal Jordan, dal suo arrivo in città nel 1984 alla vittoria dell’ultimo titolo nel 1998.
La serie ha avuto un successo planetario, complice anche il Covid che proprio in quei mesi ci costringeva a casa. Trasmessa su Netflix, ripescando le riprese dietro le quinte di una troupe nella stagione ’97-’98, The Last Dance ha fatto scoprire a neofiti e più giovani, e riscoprire a chi le aveva già vissute, le vicende sportive della dinastia dei Bulls.
Come sempre in questi casi il pubblico si è diviso. Da un lato la celebrazione di quella squadra leggendaria e di Jordan in particolare, secondo il motto: “Il basket è una religione monoteista e Jordan è il suo dio”. Dall’altro i detrattori, che hanno puntato il dito soprattutto sul taglio celebrativo e autocelebrativo del racconto, e si sono levati contro la figura di Jordan, un personaggio dai tanti lati contraddittori, competitivo fino alla compulsione, ossessionato dalla vittoria fino ad ergersi a tiranno.
Diciamo subito però che non sono queste le polemiche che ci interessano, perché qui siamo nel campo del relativismo sofista, della doxa, dell’opinione non fondata, mutevole, che nasce dalle sensazioni del momento.
Anche per questo, questo racconto filosofico di The Last Dance arriva tre anni dopo, placate le passioni immediate perché come ci ricorda Hegel, la filosofia è come la nottola di Minerva, che si leva in volo solo al termine della giornata, quando i fatti sono trascorsi e si sono consumati. Perché la filosofia deve giustificare, ovvero spiegare quello che è accaduto, e lo può fare solo quando il quadro degli eventi si è pienamente dispiegato.
Fatta questa premessa possiamo avventurarci nella nostra Fenomenologia cestista e, per iniziare, non possiamo che iniziare dal quadro storico. Siamo fra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta. Sono gli anni in cui l’Unione Sovietica si dissolve e gli Stati Uniti vincono la guerra fredda. Francis Fukuyama parla di fine della storia, teorizzando che l’egemonia americana sarà destinata a plasmare il mondo in maniera permanente, nulla cambierà questo equilibrio.
Alle spalle di questo ottimismo vi sono gli anni Ottanta, gli anni di plastica e della Reaganomics: dal 1981 al 1989 il presidente Reagan guida il Paese all’insegna del neoliberismo più sfrenato e dell’edonismo non più mediato dalla moderazione epicurea, saltano le regole del mercato stesso e l’unico valore è il successo. Homo homini lupus, come direbbe Hobbes, gli Usa celebrano la guerra di tutti contro tutti come valore fondante, ma ancora più che Hobbes bisogna ripescare il sofista Callicle per capire il clima: la legge di natura è la legge del più forte che impone il suo diritto sugli altri e che ha diritto a soddisfare ogni suo desiderio per provare ogni piacere.
Finita la storia, col crollo del muro di Berlino, rimangono il consumo e la vendita del prodotto. Non a caso, il primo indice del successo di Jordan sono il boom della Nike e lo slogan della Gatorade: “Be like Mike”. Bevi americano, consuma americano e vivi il tuo sogno di gloria.
L’Nba vive e respira questo clima: una lega che negli anni Settanta è in crisi, si rilancia negli anni Ottanta con la lungimiranza di David Stern e la rivalità fra i Lakers di Magic Johnson e i Celtics di Larry Bird, e infine acquista una dimensione planetaria proprio con Jordan, l’icona costruita con pazienza e intelligenza da una Lega pronta a conquistare il mondo.
Le vicende dei Bulls di Jordan sono epiche come una novella Iliade, il successo non è solo nei titoli, ma nella perfezione narrativa della parabola. Ecco, forse proprio questa è la chiave principale dell’immaginario legato ai Bulls e su cui gli sceneggiatori di The Last Dance hanno avuto gioco facile nel creare il loro intreccio narrativo: l’epica dei Bulls è semplicemente perfetta, migliore di qualunque sceneggiatura che potrebbe essere creata ad Hollywood. Sta tutta qui la differenza con qualunque altra narrazione sportiva e che rende la serie e il suo racconto insuperabili. Facciamoci caso, analizziamo le vicende di altri sportivi o altre squadre, di qualunque sport. Ci sono storie di successo, storie emozionati, singole splendide annate. Ma in ogni caso si stagliano nell’orizzonte filosofico del casualismo democriteo, nel materialismo antifinalistico: le cose accadono, a volte vanno bene, a volte male, ma non trascendono mai la dimensione della realtà fenomenica, non hanno mai un respiro metafisico.
Non è così per i Bulls di Jordan: la loro storia è l’esemplificazione della coincidenza fra reale e razionale di cui ci parla Hegel, dell’identità fra finito e infinito. Ogni tessera, ogni momento vanno letti in una chiave più ampia, tutto ha un senso se visto nel suo complesso, niente appare casuale, ogni negativo non è che un travaglio essenziale per generare il positivo.
Ripercorriamo rapidamente le vicende: i Bulls sono una delle squadre peggiori della Lega, non sono in grado di richiamare neanche il pubblico cittadino. Arriva in città la giovane star e le cose cambiano, si genera entusiasmo. Intorno a Jordan una dirigenza particolarmente valida costruisce il contorno necessario per vincere, ma sulla strada per la vittoria si stagliano i Bad Boys, i Detroit Pistons di Isaiah Thomas, antitesi e nemesi dei Bulls. Solo al terzo tentativo la squadra di Chicago ha la meglio, perché ha saputo superare dialetticamente i Pistons, superandoli ma conservando il necessario dalla loro antitesi, apprendendo dalla squadra di Detroit la durezza mentale e il sacrificio fisico. Da questo momento i Bulls vincono e rivincono senza soste: una, due, tre volte. Un record che non veniva realizzato da anni. Poi però tutto crolla, la stanchezza mentale, le accuse alla compulsione da gioco di Jordan, la morte del padre. E così l’eroe si ritira, lascia il basket, la squadra un po’ alla volta si allontana dalla vetta. Poi il ritorno e la delusione, la magia sembra finita. Ma non è così, c’è il rilancio feroce che porta a un nuovo ciclo di vittorie, fino al canestro finale contro gli Utah Jazz a Salt Lake City, la fotografia più famosa della storia del basket. Nell’ultima corsa i Tori sembrano sull’orlo del baratro, esausti fisicamente e mentalmente, ma per i Bulls, semplicemente, la sconfitta non esiste, l’unica opzione che si concedono è la vittoria. Il cerchio si chiude in maniera perfetta. Non c’è separazione fra prestazione individuale e successo sul campo: avreste potuto inventare una storia migliore?
Gli sceneggiatori della serie ovviamente colgono pienamente questo aspetto e ce lo ripropongono attraverso una narrazione dal taglio bergsoniano: il tempo non è sequenza di istanti distinti fra di loro, ma è durata, passato e presente si intrecciano, come in un gomitolo si può andare avanti e indietro nel tempo attraverso la memoria che è coscienza del presente. Il tempo di per sé non esiste, è un’estensione dell’anima, ci spiegava Sant’Agostino.
In mezzo a tutto questo ci sono i Bulls. Inizialmente una materia indefinita che ci rimanda all’apeiron teorizzato da Anassimandro, il caos iniziale che contiene tutto: a partire da questa materia si generano poi i singoli elementi e la squadra acquista consistenza fino a risultare, apparentemente, granitica.
Nel suo momento migliore Chicago è lo stato ideale teorizzato da Platone: la città è governata da Phil Jackson, il filosofo, l’auriga che tiene in volo la biga mettendo in equilibrio il cavallo bianco e quello nero.
I filosofi, nella teoria di Platone, governano la città coadiuvati dai guerrieri, gli uomini in cui domina la parte passionale dell’anima, coloro che coltivano il coraggio come virtù per difendere la città: Jordan, Pippen, Horace Grant nella prima versione, poi Dennis Rodman nel secondo three-peat. Infine, tutti gli altri, i produttori, coloro che devono accettare la sottomissione a filosofi e guerrieri per il bene collettivo, per realizzare la giustizia. Certo, anche a loro nulla è precluso: così come l’anima, secondo Plotino, può ricongiungersi con l’Uno in un momento estatico, anche a loro sembra concesso questo momento mistico, come accade a Jim Paxson nel primo three-peat e a Steve Kerr nel secondo. “We can be heroes, just for one day” cantava David Bowie.
Paxson, Kerr, Armstrong, Cartwright e gli altri sono presenti nella serie e raccontano il loro punto di vista, che si muove a metà fra la morale del risentimento stigmatizzata da Nietzsche e la riconoscenza verso Jordan, nel difficile tentativo dell’accettazione stoica di un lògos superiore, di un fato più forte di qualunque cosa.
Ma i veri protagonisti, attorno a cui ruota tutta la narrazione, sono ovviamente Jackson, Pippen, Rodman e – sopra di tutti – Jordan.
Rispetto a loro il contraltare senza diritto di replica, perché la vita si è messa di mezzo nella sua cruda materialità, è Jerry Krause, l’ideatore di questi Bulls e allo stesso tempo la necessaria antitesi senza la quale il processo dialettico sarebbe impossibile. Come dice Eraclito, d’altronde, Polemos – il conflitto – è il padre di tutte le cose, e il conflitto è eterno dentro a questi Bulls stessi, proprio questo li rende vivi e vitali. Krause sogna di rimodellare la squadra a suo piacimento, ma deve scontrarsi con le condizioni materiali della insuperabilità di questo gruppo, condizioni materiali che – ci ricorda Marx – sono inaggirabili se ci vogliamo calare nella concretezza storica, se vogliamo trasformare la filosofia in prassi.
Andiamoli allora a vedere più da vicino questi personaggi. Il più affascinante è sicuramente Phil Jackson, esplicitamente un mistico attratto dalle pratiche zen, a suo agio con le tradizioni dei nativi americani e la filosofia orientale, avvolto in ogni caso dal lusso perché, come ricordano gli stoici, i beni materiali non sono una virtù da perseguire, ma non vanno disdegnati se ci aiutano a vivere meglio. Misticismo orientalizzante in Jackson, ma anche un tocco – forse anche di più – della saggezza socratica. La virtù in lui è ricerca della verità, ma non una verità precostituita da trasmettere acriticamente, ma da far sorgere in un dialogo maieutico incessante.
All’inizio della stagione 1997-98 Jackson inventa il motto “The last dance”, l’ultimo ballo. Staglia di fronte alla squadra l’orizzonte conclusivo, pone il concetto heideggeriano di essere-per-la-morte: è la consapevolezza della finitezza che può dare un senso alle cose.
Abbiamo poi Dennis Rodman. Rodman arriva ai Bulls nel 1995, quando la squadra si deve ricostruire dopo il ritorno di Jordan e l’eliminazione per mano degli Orlando Magic. Rodman deve sostituire proprio colui che è mancato ai Bulls e che ha lottato dall’altra parte della barricata, Horace Grant, colonna portante del primo three-peat ma allontanatosi in rottura con la squadra.
Rodman è una scommessa che sembra persa in partenza, atleta di una intelligenza cestistica fuori dal comune, ma emotivamente instabile, una mina vagante poco consona in una squadra che cerca di raggiungere l’equilibrio zen. Jackson però lo sa maneggiare e plasmare: con lui, Rodman si avvicina quanto più possibile all’ideale del libero viandante descritto da Nietzsche, il folle che grida al mercato che “Dio è morto”, e che nel trauma di questa liberazione vuole gettarsi nel mare della responsabilità e vuole affermare la potenza superoministica del vitalismo dionisiaco. Resta però il dubbio, alla fine, fra un racconto delle notti pazze a Las Vegas e una comparsa di troppo su un ring di wrestling, che nella metamorfosi raccontata da Nietzsche, Rodman si fermi allo stadio del leone e non sia in grado di trasformarsi nel bambino che è il vero Oltreuomo, colui che inventa la vita giocando.
L’altro pezzo fondamentale di questo quadro è Scottie Pippen. A prima vista un uomo saggio, che parla con voce pacata e assume in sé le responsabilità di uomo e lavoratore per la famiglia, il marito descritto da Kierkegaard che vive nella dimensione etica.
Pippen arriva da un college sconosciuto, ma si trasforma nella migliore spalla possibile per Jordan, il completamento perfetto per una delle coppie più forti della storia. Grazie alla sua capacità di stare in questo spazio Pippen conquista da protagonista sei titoli. In mezzo, però, emergono le crepe. Quando Jordan si ritira la prima volta, Chicago da tirannia si trasforma in una democrazia e Pippen è il suo Pericle: la squadra gioca bene, diverte e si diverte. Ma perde. Pippen vuole essere il leader indiscusso della nuova squadra, ma quando Jackson gli preferisce il croato Kukoc per un tiro fondamentale lascia da solo la squadra e non torna in campo. Forse, per capire la dimensione di Pippen, dobbiamo effettivamente tornare a Kierkegaard, ma soprattutto al concetto di malattia mortale di cui ci parla il filosofo danese. Pippen è il secondo perfetto, ma non può essere il primo: in lui esiste la disperazione del finito nella sua incapacità di ricongiungersi con l’infinito. La sua esistenza si ripete in questa dimensione, che finisce per trasformarsi in una malattia mortale, una vita che giorno per giorno è di fatto morte.
E infine, per chiudere il cerchio, Micheal Jeffrey Jordan, l’alfa-omega dell’intera narrazione. Nell’aurea mistica che lo circonda sembra quasi di ritrovare le parole di Cusano: “Dio è ineffabile perché è infinitamente superiore a tutte le cose”.
Jordan, a prima vista, sembra l’incarnazione dell’idealismo romantico di Fichte, l’io-infinito che supera il non-io finito facendosi io-finito, colui che si rinnova in uno slancio continuo superando gli ostacoli che la natura gli pone davanti. Oppure, volgendo lo sguardo ad Hegel, come non pensare ai personaggi cosmostorici, coloro in cui si incarna lo spirito, le astuzie che la ragione utilizza per portare avanti la storia? Nel 1806, vedendo Napoleone sfilare nella sua città, Hegel scrive: “Ho visto l’imperatore – questa anima del mondo – cavalcare attraverso la città”. Probabilmente, fosse vissuto nel 1998 e fosse stato presente a Salt Lake City, avrebbe scritto di aver visto lo spirito del mondo attraversare un parquet.
Jordan, e forse è proprio questa la sua forza, è il primo consapevole che la sua grandezza non è ontologica, a dispetto di quello che pensano i suoi fan più accaniti. In lui vi è il concetto posto da Heidegger: l’esistenza precede l’essenza. Noi non siamo qualcosa a prescindere: noi siamo ciò che facciamo. È questa consapevolezza che spinge Jordan a diventare quello che è stato.
Certo, rispetto a tutto questo le critiche non mancano e spesso viene facile farle. La sua è una personalità dai tratti evidentemente ossessivi, vi è una compulsione alla competizione quasi alienante che lo porta a confondere realtà e immaginazione. Il tutto condito da una incapacità di provare empatia verso la gran parte dei suoi compagni di squadra. Si potrebbe anche entrare nello specifico delle critiche tecniche che mettono in dubbio l’effettiva eredità della sua grandezza, ma entreremmo in un discorso che qui non ci interessa.
Quello che ci interessa sottolineare invece è proprio ciò che rende grandiosa, a dispetto di tutto quello che abbiamo detto, la sua immagine: ovvero la tragicità del personaggio-Jordan.
I momenti cruciali che la serie ci racconta sono tre. Il primo è il pianto disperato e liberatorio dopo la vittoria del quarto titolo, una vittoria che ha dietro di sé la fatica del ritorno in campo e l’accettazione della morte paterna.
Il secondo arriva alla fine della settimana puntata. Jordan si lascia andare a un flusso interiore sulla sua leadership: “se devo farmi odiare, mi farò odiare”. Questa, in sintesi la sua riflessione. Non c’è gioia, non c’è autocelebrazione in quello che dice: gli occhi gli diventano rossi, la voce gli si spezza. Quello che rimane è l’affiorare della solitudine, della lotta incessante con un demone interiore ben poco socratico.
Infine, la scena che chiude la serie. Lo spettatore si aspetterebbe di vedere la soddisfazione nel racconto di chi esce dal campo di basket imbattuto, con alle spalle sei finali vinte su sei. Invece, quello che Jordan ci racconta, è solo il rammarico, il rimpianto di non aver potuto ritentare la strada per il settimo titolo, pur sapendo che una sconfitta avrebbe macchiato l’aurea di invincibilità.
Jordan non è l’ideale romantico che sfida la natura per affermare il proprio io. Jordan è la miseria dell’uomo che ci spiega Pascal, un essere enorme rispetto all’infinitamente piccolo, ma minuscolo di fronte all’infinitamente grande. Jordan è il dio mancato descritto da Sartre, l’uomo che sviluppa i suoi progetti di vita ma sente che qualcosa rimane sempre imperfetto ed è così costretto a convivere col suo fallimento. Ma, soprattutto, Jordan è l’uomo descritto da Schopenhauer che vive la dimensione costante del dolore, perché schiavo di una volontà che lo spinge a desiderare sempre altro, e di fronte a cui l’atteggiamento da tenere è quello della compassione, perché il dolore è un sentimento universale.