23–35 minuti


  1. 1. Da Palermo a Trapani
  2. 2. Il ritorno a Palermo e le indagini di mafia
  3. 3. Dal Maxiprocesso a Capaci
  4. PER APPROFONDIRE

La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni

Giovanni Falcone, 1991

1. Da Palermo a Trapani

INFANZIA E GIOVENTU’

Maggio 1939. La storia mondiale sta per cambiare, l’Europa corre velocemente verso la guerra. A marzo la Germania nazista ha dissolto la Cecoslovacchia, ad aprile l’Italia fascista ha invaso l’Albania. Il 22 maggio Mussolini e Hitler firmano il patto d’Acciaio, l’accordo che li lega in maniera indissolubile.
Pochi giorni prima, il 18 maggio, a Palermo è nato il terzo figlio di Arturo Falcone e Luisa Bentivegna. I genitori lo chiamano Giovanni.
La famiglia Falcone vive nel quartiere del centro storico, la Kalsa, in una strada che all’epoca è abitata dalla buona borghesia palermitana, via Castrofilippo. I Falcone vivono al primo piano, ancora considerato il piano nobile.
Arturo è un chimico, è il direttore del Laboratorio provinciale di igiene e profilassi.
Luisa è una casalinga.
Quando nasce il piccolo Giovanni hanno già due figlie, Anna e Maria.
I genitori impongono ai tre figli un’educazione conservatrice e cattolica. La madre, in particolare, di simpatie fasciste, impone un approccio rigido nella vita famigliare.
Parlando del padre, Giovanni Falcone dirà: “Era una persona seria, onesta, legata alla famiglia. Mi insegnò a lavorare sodo, a rispettare gli impegni e a preoccuparmi delle mie sorelle.”
Parlando invece della madre: “Donna molto energica, autoritaria. Da lei pochissimi segni esteriori d’affetto.”


DA STUDENTE A PRETORE

Dopo le turbolenze della guerra, la vita famigliare si stabilizza a Palermo. Nel 1954 Giovanni inizia a frequentare il liceo classico Umberto I, che comincia ad aprirgli una prospettiva nuova rispetto a quella certa rigidità famigliare a cui è abituato.
Giovanni è uno studente brillante, finiti gli studi pensa di tentare la carriera nell‘Accademia navale con l’obiettivo di diventare ingegnere: i genitori non sono molto soddisfatti della scelta, ma non impongono la propria volontà sul figlio. La destinazione che gli viene assegnata però non soddisfa Giovanni, che viene inviato allo Stato maggiore dell’Accademia: l’ambiente rigido, fondato sull’obbedienza acritica, non fa per lui.
Così decide di lasciare l’Accademia dopo pochi mesi, ma la carriera universitaria non ne risente: in segreto il padre lo ha iscritto a Legge e Giovanni può così iniziare a frequentare i corsi. È la prima delle sliding doors che ne segneranno il destino.
Un anno dopo l’inizio dell’università, Giovanni, con tutta la famiglia, si sposta in un’altra zona di Palermo, via Notarbartolo. La loro casa viene infatti abbattuta nel cosiddetto sacco di Palermo e devono trovarsi una nuova sistemazione: ci torneremo.
Già nel ’61 arriva la laurea, con lode. Poi, nel ’62, la svolta anche nella vita sentimentale: ad una festa conosce Rita Bonnici, una maestra delle elementari. I due si prendono subito e già nel ’64 si sposano. Giovanni ha 27 anni e il matrimonio con Rita è la seconda delle sliding doors della sua esistenza.
Nello stesso anno arriva anche la svolta lavorativa: Falcone vince subito il concorso nella magistratura e viene inviato a Lentini, nella provincia di Siracusa, a fare il pretore. È il primo incarico e certo non il più indimenticabile, in una realtà dell’angusta provincia siciliana.


LA MAFIA FRA GLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA

Giunti a questo punto dobbiamo fare una deviazione e lasciare in sospeso la vita di Falcone, per vedere cosa sta succedendo nell’altro fronte che segnerà in maniera decisiva la sua esistenza: quello mafioso.
Quando Falcone lascia Palermo nel ’64, Cosa nostra palermitana sta attraversando una fase molto delicata della sua parabola. Cerchiamo di capire il perché, facendo un piccolo salto indietro.

Durante gli anni Cinquanta, Palermo è dentro una rivoluzione urbanistica. Le distruzioni provocate dalla guerra da un lato, la massiccia crescita demografica dall’altro, impongono la necessità di aumentare in maniera significativa le abitazioni cittadine. Inizia così un processo di speculazione edilizia non controllato, di cui fanno le spese anche molti dei palazzi e delle ville più belli di Palermo, che vengono abbattuti per essere rimpiazzati da nuove costruzioni più ampie. Questo processo avviene fuori da ogni regolamentazione urbanistica dando luogo a tutta una serie di illeciti: è il sacco di Palermo. Per la mafia delle borgate limitrofe però è oro colato: la città si espande, ingloba le borgate e le famiglie mafiose partecipano alla speculazione edilizia che gonfia le entrate.
Queste stesse entrate vengono poi reinvestite nei nuovi traffici di droga in connessione con gli Stati Uniti.
In pratica, la seconda metà degli anni Cinquanta provoca un arricchimento diffuso di Cosa nostra.

Ma, come si sa, quando nel mondo criminale gli affari crescono, crescono anche gli appetiti e le rivalità. Per cercare di regolare questa tensione crescente, le famiglie palermitane si danno una struttura di coordinamento, la commissione provinciale, in cui siedono i boss più prestigiosi per coordinare le attività delle cosche. Ma tutto questo non basta.
Nel 1962 scoppia una guerra di mafia che vede contrapporsi due fronti. Da un lato quello guidato dai fratelli La Barbera, della famiglia di Palermo Centro. Dall’altro quello che fa capo ai Greco di Ciaculli. I primi sono dei nuovi arrivati nella criminalità palermitana, i secondi rappresentano la più consolidata tradizione mafiosa.
La guerra gira presto a vantaggio dei Greco, quando il 30 giugno 1963 un’autobomba destinata probabilmente ai Greco viene trovata dai carabinieri. L’Alfa Giulietta carica di tritolo salta e muoiono sette rappresentanti delle forze dell’ordine. Forse, una pura coincidenza, forse un attentato ricercato. In ogni caso, la reazione dello Stato è abbastanza veemente: mentre vengono finalmente avviati i lavori della prima Commissione parlamentare antimafia, un giro di arresti porta in carcere centinaia di mafiosi e ne costringe altri alla latitanza. Il giudice Cesare Terranova si fa carico di imbastire una serie di processi e ha un’intuizione fondamentale, comprende che la mafia ha una struttura unitaria. Oggi lo diamo per scontato, all’epoca era un qualcosa di impensabile. Per molti versi, Terranova è un Falcone ante litteram, anche per il destino che lo attende. Ci torneremo.

Le indagini e gli arresti mettono alle corde Cosa nostra. Le famiglie si sciolgono. Allarghiamo lo sguardo: è il 1963, viene avviato il primo storico governo di centrosinistra che porta per la prima volta i socialisti al governo e vengono annunciate riforme storiche. Sembra l’inizio di una nuova era.
L’illusione dura però poco. Sia per l’innovazione del Paese che per la lotta alla mafia.
I risultati processuali sono al di sotto delle aspettative, anche perché mancano strumenti legislativi che arriveranno più avanti, come la legge Rognoni-La Torre che istituisce il reato di associazione mafiosa.
La gran parte dei mafiosi lascia le carceri, ricostituisce le famiglie e vengono ricreate le strutture di coordinamento che hanno il compito di ridisegnare i nuovi equilibri.

Particolarmente significativo dei nuovi rapporti di forza è il triumvirato che viene chiamato a guidare la provincia di Palermo nel 1970 composto da Gaetano Badalamenti – il boss di Cinisi che in questi anni più di tutti si arricchisce con i traffici di droga -, Stefano Bontate – capomafia di Villagrazia e rappresentante di una delle famiglie con i maggiori gradi di nobiltà mafiosa – e il corleonese Salvatore Riina. Questo oggi è il nome più tristemente noto, all’epoca invece è considerato dalle forze dell’ordine un mafioso di secondo piano, e va a prendere il posto in commissione per conto di Luciano Liggio, capomafia corleonese condannato all’ergastolo. Riina sfrutterà questa posizione per accrescere in poco tempo il suo potere, ma nel 1970 è dei tre pilastri quello apparentemente più debole, perché un po’ tutti a Palermo considerano i corleonesi dei viddani, rozzi delinquenti di campagna.

Le cose cambieranno presto, come vedremo, ma per il momento torniamo ad occuparci della biografia di Falcone.


DA LENTINI A TRAPANI

Gli anni Sessanta sono anni particolari nella lotta alla mafia, in cui cominciano a emergere, nell’apatia generale, alcune prime personalità che hanno un approccio molto più deciso nei confronti di Cosa nostra, ma si muovono in una generale impreparazione dello Stato e in una tradizionale diffidenza verso chi si sporca le mani con queste vicende.

Falcone, in questi anni, è molto lontano da questo mondo.
Nel ’66, dopo appena due anni da pretore a Lentini, si trasferisce a Trapani con la moglie. Qui lo vediamo frequentare, abbastanza controvoglia, i salotti buoni della città, e con molta più partecipazione attivarsi per lotte civili come il referendum per il divorzio.

Nel 1973 un altro passaggio che poi risulterà decisivo, un’altra delle sliding doors. Arriva a Trapani un nuovo presidente del Tribunale Civile, Cristoforo Genna, che convince Falcone a seguirlo nella sezione civile. Per Giovanni è esperienza in un campo nuovo ma, allo stesso tempo, una scelta che inciderà profondamente nella sua vita privata. La moglie, con cui le cose già non vanno bene, comincia infatti a intrecciare una relazione sentimentale proprio con Cristoforo Genna. La relazione è sulla bocca di tutti e gli anni trapanesi diventano sempre più pesanti per Falcone, che peraltro proprio in questi anni vive la malattia terminale del padre, che se ne va nel 1976.

Nel 1978, per dare una svolta alla propria esistenza, Falcone decide così di trasferirsi a Palermo e ricominciare dove tutto è iniziato.


2. Il ritorno a Palermo e le indagini di mafia

L’INCONTRO CON LE INDAGINI DI MAFIA

Il ritorno a Palermo non salva il matrimonio di Falcone. Già nel 1979 la moglie lo lascia definitivamente, tornando a Trapani dal giudice Cristoforo Genna.
Giovanni va a vivere temporaneamente dalla madre, a via Notarbartolo. E arriva anche la grande svolta che segnerà il suo destino: il trasferimento nella sesta sezione penale, nell’ufficio istruzione guidato da Rocco Chinnici.
L’anno è il 1979. L’Italia si è appena messa alle spalle il sequestro Moro. Ma in Sicilia le cose stanno peggiorando rapidamente.
Chinnici convince Falcone a trasferirsi nell’ufficio istruzione dopo il delitto Terranova: è lo stesso giudice che abbiamo già incontrato. Dopo un’esperienza parlamentare sta tornando alla piena attività di magistrato. La mafia decide che non può rischiare nuovamente.
Ma quello di Terranova non è l’unico delitto eccellente, come si comincia a dire, di questi anni. Nello stesso anno sono stati uccisi l’ispettore Borsi Giuliano e il giornalista Mario Francese. Due anni prima il tenente colonnello Giuseppe Russo.
C’è un filo che lega tutti questi delitti. Lo stesso filone su cui sta lavorando proprio Chinnici, insieme ad un altro magistrato fra i più attivi nell’antimafia: Gaetano Costa.
Sono magistrati seri, che fanno il loro dovere fino in fondo. E ne pagano le spese: pochi mesi dopo il trasferimento di Falcone, nel 1980 anche Costa viene ucciso in un attentato.
E poi, l’incubo: fra il 1981 e il 1982 Palermo affonda in una guerra di mafia. I morti si contano a centinaia, perlomeno quando i corpi vengono ritrovati.
A questo punto dobbiamo di nuovo interromperci e capire il perché di questa violenza che colpisce dentro Cosa nostra e fuori dalle cosche.


L’ASCESA DEI CORLEONESI

Anche in questo caso dobbiamo fare un salto indietro di qualche anno.
Come abbiamo visto gli anni Settanta segnano il rilancio di Cosa nostra. I clan si riorganizzano e si arricchiscono facendo affari d’oro con la droga.

A trarne grandi benefici, oltre a Badalamenti, sono due delle più importanti famiglie palermitane: quella dei Bontate, che abbiamo già incontrato, e quella degli Inzerillo. Le due famiglie sono strettamente legate e sembrano avere Cosa nostra in mano: hanno alleati in tutta l’isola, hanno contatti politici, sono immischiati nell’economia siciliana. E, soprattutto, raffinano droga direttamente sull’isola.

Proprio sulle tracce di questi traffici, che legano Sicilia e Stati Uniti, cominciano a mettersi investigatori come Boris Giuliano e poi magistrati come Costa. Un filone di inchiesta che verrà poi ereditato proprio da Falcone e darà vita ai processi, da una parte e dall’altra dell’oceano, della cosiddetta Pizza Connection.

Ma non tutti i clan si stanno arricchendo con la droga. Esclusi, in particolare, sono i corleonesi ormai guidati in pianta stabile da Totò Riina.

Nel corso del decennio i corleonesi cercano di cambiare questo equilibrio e iniziano a stringere un po’ alla volta il cerchio. La strategia dei corleonesi si fonda su quattro passaggi:

  1. Arricchirsi con i sequestri di persona
  2. Colpire gli alleati dei Bontate-Inzerillo
  3. Infiltrarsi nelle cosche e creare alleanze trasversali
  4. Eliminare quelli che “ficcano” un po’ troppo il naso

E il gioco funziona. I sequestri colpiscono imprenditori e politici vicini ai Bontate-Inzerillo. Nel 1978 Badalementi viene deposto dalla Commissione e vengono uccisi due capomafia alleati dei Bontate-Inzerillo nelle province siciliane: Giuseppe Di Cristina di Riesi e Giuseppe Calderone di Catania. Allo stesso tempo cominciano a colpire fuori da Cosa Nostra: il carabiniere Costa prima, il giornalista Francese e il giudice Terranova poi.

Allo stesso tempo, spesso in segreto, molti esponenti delle famiglie mafiose passano nel fronte dei Corleonesi: i clan palermitani, praticamente, si dividono al loro interno. E i Greco, l’altra grande famiglia storica di Palermo, silenziosamente scelgono di stare dalla parte dei Corleonesi.

Il cerchio sui Bontate e sugli Inzerillo si va così a stringere. Provano anche loro a mandare un segnale di forza e nel 1980 fanno uccidere il magistrato Costa. Si tratta di un fuoco di paglia. I due clan si sentono al sicuro: hanno le alleanze politiche e quelle economiche dalla loro parte. Ma non hanno capito che la potenza di fuoco ormai è da tutt’altra parte.

Nel 1981 si scatena la guerra di mafia. Ed è un massacro. Nel giro di poche settimane vengono uccisi i due capoclan: Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo. Dopodiché è una caccia all’uomo. Definirla guerra in effetti è sbagliato, perché le vittime sono tutte di una parte. Chi può cerca di scappare, spesso oltre Oceano.

Fra questi c’è un personaggio decisivo: Tommaso Buscetta. Buscetta fa parte della famiglia del quartiere Porta Nuova. È legato in particolare a Stefano Bontate. Ma anche il suo clan passa segretamente con i corleonesi, grazie al capomafia Pippò Calò.

Buscetta capisce presto che la lotta è impari. Scappa, si rifugia in Brasile. Per stanarlo i suoi avversari cominciano a uccidere i suoi parenti. Alla fine, Buscetta viene catturato dalla polizia brasiliana nel 1983. In Brasile lo raggiunge nel 1984 un magistrato italiano per convincerlo a collaborare con la giustizia: quel giudice, ovviamente, è Giovanni Falcone.


BUSCETTA E L’ASINARA: VERSO IL MAXIPROCESSO

Per capire perché nel 1984 Falcone va in Brasile a parlare con Buscetta dobbiamo fare di nuovo un passo indietro e tornare dove avevamo lasciato il giudice nel 1980.

Come abbiamo visto in quell’anno Falcone è da poco approdato all’ufficio istruzione penale di Palermo. In questo stesso periodo inizia anche a mettersi alle spalle il primo matrimonio, cominciando a frequentare Francesca Morvillo, anche lei un magistrato. Nel frattempo si trasferisce in un’altra abitazione a via Notarbartolo, vicino a dove viveva con la madre, in quella che sarà la sua ultima casa palermitana.

Se la vita privata conosce una svolta, la vita lavorativa assume una piega molto particolare.

L’ufficio in cui Falcone approda è quello più delicato del tribunale di Palermo. Gaetano Costa, come abbiamo visto, sacrifica la sua vita per le sue indagini.

Falcone, sotto Chinnici, continua a lavorare sullo stesso filone e mostra tutte le sue abilità. Le sue intuizioni sono fondamentali per sostenere le indagini dell’FBI in America e contribuire a costruire il processo della cosiddetta Pizza Connection.

Nel frattempo, a Palermo, come abbiamo visto, il clima si fa incandescente. Nel 1981 inizia la guerra di mafia. Allo stesso tempo Cosa nostra alza ulteriormente la mira contro il mondo dell’antimafia: nel 1982 uccide il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, che sta costruendo una proposta di legge per contrastare il fenomeno mafioso; pochi mesi dopo il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, inviato a Palermo come prefetto; infine, l’anno successivo, è lo stesso capo di Falcone, Rocco Chinnici, ad essere ucciso in un drammatico attentato. L’impressione è tale che un giornale titola: “Palermo come Beirut”.

Questi delitti eccellenti producono però una reazione decisiva. Possiamo rintracciare tre svolte in particolare:

  1. nel settembre 1982 il Parlamento approva la legge Rognoni-La Torre. È una legge fondamentale in quanto istituisce il reato di associazione mafiosa e introduce il sequestro dei beni per gli affiliati alle cosche
  2. la città di Palermo si mobilita. Si moltiplicano le iniziative e le associazioni antimafia. Si crea un clima politico nuovo che nel 1985 porta Leoluca Orlando a diventare sindaco della città, facendo del riferimento all’antimafia il suo punto caratterizzante. Gli anni successivi si parlerà di primavera di Palermo per descrivere il clima che accompagna le giunte guidate da Orlando
  3. dopo la morte di Chinnici giunge a Palermo un altro valoroso magistrato, Antonino Caponnetto. Caponnetto raccoglie e rende operativo un progetto di Chinnici: il pool antimafiia. L’idea di base è quella di convogliare tutte le indagini di mafia verso un unico gruppo di magistrati che possa lavorare collettivamente e tenere il quadro di insieme. Del gruppo faranno parte Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta

E qui torniamo al punto che avevamo lasciato in sospeso. Falcone, come esponente di punta del pool antimafia, nel 1984 incontra Buscetta e avvia una svolta decisiva. Buscetta inizia a svelare al giudice i segreti di Cosa nostra e gli conferma quella che era solo un’ipotesi giudiziaria: Cosa nostra ha una struttura unitaria e al suo vertice ha una commissione, la cosiddetta “cupola”, che dirige le attività principali delle cosche.

La testimonianza di Buscetta, che apre la strada anche ad altri collaboratori, diventa l’architrave intorno a cui i giudici del pool iniziano a costruire un enorme procedimento giudiziario che darà vita al maxiprocesso, in cui verranno incriminati centinaia di mafiosi.

Le cose non filano sempre lisce però.

Se una parte di Palermo sostiene l’azione del pool un’altra parte, consistente, mostra il suo fastidio per questi giudici che smuovono un po’ troppo le acque. Queste voci vengono raccolte in particolare dal Giornale di Sicilia, il più importante quotidiano della città. Celebre è la lettera di una lettrice che il Giornale pubblica il 14 aprile 1985: “Sono una onesta cittadina che paga regolarmente le tasse e lavora otto ore al giorno. Vorrei essere aiutata a risolvere il mio problema che, credo, sia quello di tutti gli abitanti della medesima via. Regolarmente tutti i giorni (non c’è sabato e domenica che tenga), al mattino, durante l’ora di pranzo, nel primissimo pomeriggio e la sera (senza limiti di orario) vengo letteralmente “assillata” da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora io domando: è mai possibile che non si possa, eventualmente, riposare un poco nell’intervallo del lavoro o, quantomeno, seguire un programma televisivo in pace, dato che, pure con le finestre chiuse, il rumore delle sirene è molto forte?”

Mentre una parte della città chiude gli occhi, Cosa nostra continua la sua scia di sangue. Nell’estate del 1985 la mafia uccide Beppe Montana e Ninni Cassarà, i due uomini di punta della squadra di Palermo, che collaborando con il pool antimafia si erano resi protagonisti della cattura di decine di latitanti e avevano individuato le attività dei singoli mafiosi.

Subito dopo questi attentati, Falcone e Borsellino vengono trasferiti d’urgenza insieme alle loro famiglie nel carcere dell’Asinara, per prevenire possibili pericoli e permettere ai due di finire l’allestimento del processo.

Per i due giudici la reclusione all’Asinara è soltanto l’ultimo sacrificio di una vita che ormai non ha più una dimensione privata, ma che gli permette di portare a compimento la loro grande fatica e stilare l’ordinanza di rinvio a giudizio per il maxi processo, che viene presentata a novembre da Caponnetto. Il momento decisivo è arrivato.



3. Dal Maxiprocesso a Capaci

1986-1987: IL MAXIPROCESSO

Il maxiprocesso, come viene subito ribattezzato il processo d’Assise, si apre a Palermo il 10 febbraio 1986. I numeri sono da record: il pool antimafia ha portato alla sbarra 475 imputati. Per far svolgere le udienze è stato costruita appositamente un’aula bunker collegata al carcere dell’Ucciardone.

Il processo paralizza per due anni l’attenzione della città e attira critiche di ogni genere, portate avanti da quella parte dell’opinione pubblica più ostile all’operato dei giudici.

Nel pieno del maxi arriva anche la stoccata più dura, quella dello scrittore Leonardo Sciascia, una delle prime voci dell’antimafia siciliana. Sciascia pubblica un articolo sul Corriere della Sera che si intitola I professionisti dell’antimafia. Prendendo come spunto la recente nomina di Paolo Borsellino a procuratore capo di Marsala, Sciascia lancia un duro affondo contro quei magistrati che stanno utilizzando le indagini antimafia per fare carriera.

La riflessione di Sciascia per molti aspetti è anche interessante, ma attaccando di fatto Borsellino finisce per criticare l’intero impianto del maxiprocesso e diventare così un punto di riferimento per tutte le voci ostili a questo attacco massiccio alle cosche.

In ogni caso il maxiprocesso si instrada per la via giusta. Buscetta e gli altri collaboratori vanno in tribunale e confermano le loro dichiarazioni. È la prima volta nella storia della mafia che accade una cosa simile.

Per Falcone c’è anche un momento di gioia privata: nel maggio 1986 si sposa con Francesca Morvillo. È una piccola cerimonia che si svolge per necessità molto lontano dai riflettori. A officiarla è Leoluca Orlando, a testimonianza degli ottimi rapporti fra il protagonista della primavera di Palermo e il pool antimafia.

Dopo la gioia privata arriva anche la soddisfazione professionale: nel dicembre 1987 il maxi processo si chiude con una sentenza che di fatto conferma l’intero impianto accusatorio. 346 imputati vengono condannati, di questi diciannove all’ergastolo.

I giudici sostanzialmente riconoscono la validità di quello che giornalisticamente è stato definito il “teorema Buscetta”, ovvero l’idea che Cosa nostra sia una organizzazione piramidale e che dunque i vertici della commissione sono da considerarsi inevitabilmente responsabili dei delitti più gravi.

LA STAGIONE DEI VELENI

Il maxiprocesso rappresenta il primo vero grande successo della lotta alla mafia nella storia italiana, ma invece di essere l’avvio di un ulteriore salto di qualità del pool antimafia rappresenta anche la fine di questa straordinaria esperienza.

Da questo momento Giovanni Falcone, esposto in prima linea nella lotta a Cosa nostra, diventa il bersaglio di una serie di manovre e critiche che finiranno per spingerlo fuori dalla procura di Palermo. Inizia quella che verrà definita la stagione dei veleni.
Vediamo perché.

La prima tappa di questa stagione è la mancata nomina di Falcone come successore di Caponnetto.

Al termine dell’esperienza del maxiprocesso, Antonino Caponnetto – prossimo alla pensione – pensa infatti che sia giunto il momento di tornare a vivere con la famiglia e lasciare il suo posto di consigliere istruttore a Giovanni Falcone. La successione sembra un fatto scontato, ma si crea una corrente che a Falcone contrappone un altro giudice: Antonino Meli.
Nel gennaio ’88 il Consiglio Superiore della Magistratura si riunisce: Meli ottiene 14 voti, Falcone 10. Gli astenuti sono 5.

Diventato consigliere istruttore, il posto che era stato occupato da Caponnetto e prima ancora da Chinnici, Meli smonta in pochi mesi il pool antimafia. L’idea di Meli è che il lavoro deve riprendere nella routine normale e le indagini di mafia vengono spezzettate, vanificando così l’intera logica che aveva portato al maxiprocesso. Falcone, con tutta la sua esperienza accumulata sul fronte antimafia, viene così accantonato.

Il secondo tassello di questa stagione dei veleni arriva con le cosiddette lettere del corvo.

Siamo nel 1989 all’interno della procura di Palermo iniziano a girare lettere di un anonimo, il “corvo” appunto, che muove delle gravissime accuse a Falcone. Il contesto da cui prendono corpo queste lettere è il seguente: nei mesi precedenti un collaboratore di giustizia, Salvatore Contorno, sfugge alla sorveglianza delle forze dell’ordine negli Stati Uniti, arriva segretamente in Sicilia e si mette alla caccia dei corleonesi. Le lettere del corvo accusano Falcone di aver coperto Contorno e avergli lasciato mano libera per avviare una resa dei conti interna a Cosa nostra.

Proprio nel momento in cui iniziano a girare queste lettere arriva il terzo tassello del mosaico: il 21 giugno del 1989 viene sventato un attentato nei confronti di Falcone. Il magistrato sta passando dei giorni al mare, all’Addaura, con la moglie, quando viene ritrovata una borsa carica di tritolo.

Per Falcone è un campanello d’allarme fortissimo, ma la cosa più inquietante è la reazione, perché vengono fatte circolare voci che Falcone, in cerca di notorietà, si sia “costruito” l’attentato da solo. Quasi a rafforzare questa tesi vengono ora rese pubbliche le lettere del corvo, ad alimentare le ombre intorno la figura del giudice. La risposta di Falcone a questo clima è durissima. In un’intervista alcune settimane dopo lo sventato attentato, il giudice dichiara: Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi

Le cose, dunque, vanno sempre peggio a Palermo per il magistrato. Ma non è finita. Il 1990 si rivela un anno addirittura peggiore.

A maggio arriva la rottura con Leoluca Orlando, il sindaco della primavera. Nel corso di una puntata nella trasmissione televisiva Samarcanda, Orlando accusa infatti Falcone di tenere nascoste le carte sui rapporti mafia-politica. Anche qui occorre guardare il contesto: a muovere nella sua accusa Orlando è stato il rifiuto di Falcone di dare credito ad alcune illazioni di un collaboratore di giustizia nei confronti di Salvo Lima, uomo forte della Dc palermitana che intrattiene rapporti molto opachi con le cosche. Dal canto suo l’azione di Falcone è però molto chiara: il magistrato sa che certi processi vanno costruiti con cautela e muovendosi con una struttura accusatoria molto solida. Ma bisogna allargare ancora di più lo sguardo per capire l’attacco di Orlando. La stagione della primavera palermitana sta per finire e, il clima politico sta cambiando e, come dirà Falcone tempo dopo: “Orlando ormai ha bisogno della temperatura sempre più alta. Sarà costretto a spararla ogni giorno sempre più grossa”.

La rottura Falcone-Orlando rappresenta la fine della primavera di Palermo, ma i guai per il magistrato non sono finiti. A giugno, poche settimane dopo l’attacco di Orlando, Falcone perde un altro incarico importante. Concorre come procuratore del tribunale di Palermo, ma gli viene preferito Pietro Giammanco. I due avevano anche collaborato negli anni del pool, ma ora Giammanco si muove in direzione totalmente opposta: arriva rapidamente ad una rottura con Falcone e ad emarginarlo dentro la procura, riempiendolo di casi che non hanno nulla a che fare con la mafia.

A dicembre, infine, l’anno si chiude con un’altra doccia fredda. Arriva la sentenza d’appello del maxiprocesso che ribalta il primo grado. Le pene inflitte agli imputati vengono ridotte drasticamente ma, soprattutto, non viene riconosciuto il principio accettato dalla corte d’assise, ovvero l’idea che i membri della cupola palermitana siano egualmente responsabili dei delitti più importanti. In altre parole, il cosiddetto teorema Buscetta viene sensibilmente ridotto nella sua portata.

In questa situazione di estrema delusione personale e di scoraggiamento per la piega assunta dalla lotta antimafia in Italia, Falcone si trova di fronte all’ultima slining door della sua vita e decide di lasciare la procura di Palermo e trasferirsi a Roma, accettando un incarico ministeriale, la direzione dell’ufficio Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia.


DA ROMA A CAPACI

Il trasferimento a Roma è un’altra scelta molto complessa per Falcone. Il ministero della Giustizia è guidato da Carlo Martelli, un socialista, e i socialisti si sono resi protagonisti negli ultimi anni di una linea politica molto ostile ai magistrati che, non a caso, ha prodotto un riscontro elettorale favorevole a Palermo.

L’avvicinamento a Martelli provoca a Falcone un’altra ondata di critiche: il magistrato, in cerca di notorietà, si è ormai avvicinato al potere e pensa solo a fare carriera. Questo, più o meno, il tono delle accuse che arriva a Falcone sui giornali italiani.

Per Falcone, la scelta invece è l’occasione di voltare pagina e dare un contributo più sostanziale alla lotta antimafia. Innanzitutto vuol dire lasciare Palermo con i suoi veleni, cambiare città e ritrovare tranquillità. La stessa sorella di Falcone, Maria, sarà testimone di questo cambiamento e dirà: “Erano anni che non lo vedevo così sereno”. Il magistrato trova anche il tempo di collaborare con la giornalista Marcelle Padovani alla scrittura di un libro, Cose di cosa nostra, che rappresenterà il testamento spirituale di Falcone e un documento essenziale per comprendere più da vicino il mondo mafioso.

Ma, soprattutto, la direzione degli Affari Penali è per Falcone l’occasione per dare vita ad un progetto più organico nella lotta alla mafia. L’idea centrale su cui Falcone lavora a Roma è la creazione di una procura nazionale antimafia, con l’idea di coordinare le indagini antimafia a livello nazionale.

Alla fine del 1991 viene così varata la Direzione Nazionale Antimafia (Dna) e, con essa, la Direzione Investigativa Antimafia (Dia), due strumenti oggi centrali nella lotta alle cosche criminali. Anche in questo caso non mancano le critiche, anche perché Falcone decide di concorrere come procuratore nazionale della Dna, una scelta che lo stesso Paolo Borsellino riterrà inopportuna.

Mentre la questione della Dna tiene banco, nel 1992 arriva un altro fondamentale risultato sul fronte della lotta alla mafia, ovvero la sentenza della Corte di Cassazione che torna a confermare sostanzialmente le conclusioni della corte d’Assise del maxiprocesso. La sentenza è un fatto storico, perché, di fatto, viene riconosciuta sul piano giudiziario l’esistenza di Cosa nostra. Anche in questo caso c’è lo zampino di Falcone. Falcone spinge infatti per introdurre il criterio della rotazione nell’assegnazione dei processi di mafia all’interno della Cassazione: seguendo questo principio, il caso non arriva sulla scrivania di Corrado Carnevale, un giudice noto come l’ammazza sentenze, perché a causa del suo estremo garantismo ha negli anni vanificato tutta una serie di processi favorendo spesso le cosche.

L’esito della decisione della Corte di Cassazione suggella l’enorme lavoro degli anni del pool antimafia, ma è allo stesso tempo l’atto che sancisce la definitiva sentenza di morte per Falcone. La reazione di Cosa nostra alla sentenza del 1992 è infatti feroce.

Per anni gli uomini di Cosa nostra si erano abituati all’idea che le sentenze, in un modo o nell’altro, si aggiustavano, ma la sentenza della Cassazione rappresenta un punto di non ritorno. Con le spalle al muro, Riina, ancora latitante, decide di lanciare un vero e proprio assalto alle istituzioni e agli amici che hanno tradito.

A marzo viene assassinato l’eurodeputato Salvo Lima, lo storico referente politico della mafia a Palermo. Agli occhi di Riina, la colpa di Lima è stata quella di non aver saputo muovere i fili giusti per evitare la sentenza della Cassazione.

Il segnale che i corleonesi mandano con questo omicidio è colto per primo, nella sua portata, dallo stesso Falcone, che commenterà: “Adesso può succedere di tutto”.

E il tutto che poteva succedere, avrebbe riguardato innanzitutto lo stesso Falcone, il nemico numero uno delle cosche siciliane.

Il 23 maggio 1992 Falcone rientra in Sicilia atterrando all’aeroporto di Palermo. L’idea è quella di andare a passare un weekend a Favignana, a guardare la mattanza.

Atterrato a Punta Raisi, Falcone si mette alla guida della sua auto, in compagnia della moglie e dell’autista giudiziario Giuseppe Costanza. La loro vettura è accompagnata da due auto di scorta.

Alle 17:57, mentre il corteo passa all’altezza dello svincolo per Capaci, Giovanni Brusca fa esplodere 400kg di esplosivo nascosti sotto l’autostrada.

Lo scenario prodotto dall’esplosione è apocalittico. Ciò nonostante, Falcone e Francesca Morvillo verranno trasportati in ospedale ancora vivi. Il primo muore alle 19.00, fra le braccia di Borsellino, la seconda poche ore dopo. Con loro muoiono tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillio, Antonio Montinaro.

La prima, immediata, conseguenza della strage di Capaci è l’elezione a presidente della Repubblica di Oscar Luigi Scalfaro. La strage arriva infatti mentre a Roma è in corso l’elezione del nuovo presidente, da giorni in stallo. Il 23 maggio sembrano ormai maturate le condizioni per l’elezione di Giulio Andreotti, ma la bomba di Capaci si fa sentire anche a Montecitorio: Andreotti è un nome su cui pesano troppe ombre di legami mafiosi, così il Parlamento vira verso la figura di Scalfaro, una personalità più in linea per fronteggiare il nuovo assalto terroristico delle cosche allo Stato.


PER APPROFONDIRE

LIBRI

F. La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Rizzoli, 1993

S. Lupo, Mafia. Centosessant’anni di storia, Donzelli, 1998

J. Dickie, Cosa nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza, 2004

G. Falcone e M. Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli, 1992

FILM E DOCUMENTARI

Era d’estate, di F. Infascelli, 2015

Estate 1985. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono trasferiti d’urgenza all’Asinara insieme alle loro famiglie in seguito ad una minaccia più allarmante del solito. I giudici stanno lavorando al maxiprocesso penale che, la storia insegna, porterà in carcere molti dei protagonisti della criminalità organizzata.

In un altro paese, di M. Turco, 2005

Documentario che ripercorre la vicenda biografica di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nella loro lotta alla mafia


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