Max Weber: il teorico della modernità

1. Vita e introduzione al pensiero

Tedesco, nato nel 1864, Max Weber diventa alla fine dell’Ottocento un protagonista del dibattito nelle scienze storico-sociali, ricoprendo l’incarico di docente universitario e diventando protagonista della rivista “Archivio di Scienza Sociale e Politica Sociale”​. Allo scoppio della prima guerra mondiale si schiera a favore del conflitto, ma nel giro di pochi anni assume posizioni pacifiste. Nel dopoguerra partecipa alla redazione della Costituzione di Weimar, ma muore nel 1920 colpito dall’epidemia di influenza spagnola.​
Weber è principalmente un sociologo e uno studioso della metodologia delle scienze storico-sociali, ma il suo contributo va però al di là del confine di queste discipline: la sua è infatti una riflessione filosofica generale sui processi della modernità, sulla costruzione dei sistemi economici, sociali e politici​.

Per semplificare sintetizzeremo il suo pensiero sotto tre prospettive:
1. Il suo contributo  nella definizione di un metodo delle scienze storico-sociali​
2. Il suo contributo nella riflessione sui processi che caratterizzano la modernità
3. La riflessione sull’etica del politico

2. Il metodo delle scienze storico-sociali

Nel periodo in cui Weber svolge la sua produzione intellettuale, uno dei temi più dibattuti è la definizione di un metodo delle scienze storico-sociali, in contrapposizione al metodo delle scienze naturali. ​
Seguiamo la riflessione di Weber intorno a quattro concetti chiave:
1) i valori del ricercatore
2) l’avalutatività della ricerca
3) la ricostruzione delle cause
4) la teoria dei tipi ideali

2.1 I VALORI DEL RICERCATORE


Il punto di partenza della riflessione di Weber è la differenziazione fra:
Scienze naturali = il cui obiettivo è individuare leggi generali, sempre valide​
Scienze sociali = il cui obiettivo è studiare l’individuo, dunque casi particolari che non possono essere elevati a regole generali​

Data questa distinzione, vuol dire che lo scienziato naturale è sempre mosso dall’intenzione di giungere a definire leggi universali, non altrettanto si può dire del ricercatore storico-sociale.​
Cosa muove allora la ricerca storico-sociale?
La risposta che Weber dà è: i valori del ricercatore. Questo vuol dire che l’interesse che muove il ricercatore storico-sociale è legato al suo mondo valoriale, alla sua visione soggettiva della storia.​
Conseguenze di questo approccio sono che la ricerca storico-sociale può essere definita come:​
legata a prospettive molteplici = i ricercatori guardano alla storia e alla società da un punto di vista prospettico​
asistematica = è impossibile giungere a un sistema interpretativo globale della realtà​

Nonostante la prospettiva asistematica delle scienze storico-sociali, non vuol dire che queste non debbano giungere a fornire risultati oggettivamente validi, ovvero accettabili da tutti. ​
Come è possibile raggiungere questo obiettivo? ​
Per renderlo fattibile, serve che la ricerca storico-sociale sia:​
avalutativa
fondata sulla ricostruzione dei nessi causali

2.2 LA RICERCA AVALUTATIVA

Avalutatività della ricerca significa che: nonostante il ricercatore sia mosso nel suo studio da valori soggettivi ed individuali, lo scopo del suo lavoro non deve essere quello di esprimere un giudizio di merito sui fenomeni storico-sociali. Quindi la sua ricerca è avalutativa nel senso che non deve esprimere una valutazione (morale, politica, religiosa, ecc…)​.
La conseguenza di questo approccio è l’autonomia della ricerca storico sociale, ovvero che il suo campo non deve essere invaso da altre discipline, siano esse di natura filosofica, etica, politica, ecc…. Allo stesso tempo la ricerca storica deve essere libera dalle interferenze degli interventi di politici, religiosi, economisti e via dicendo, i quali nel giudicare la storia compierebbero una indebita interferenza​.

2.3 LA RICOSTRUZIONE DELLE CAUSE

Per riuscire a descrivere in maniera appropriata l’oggetto di studio, una ricerca storico-sociale deve far emergere in maniera rigorosa le cause che sono alle origini di un fenomeno. In altri termini la ricerca deve essere comprendente = deve mostrare di comprendere le cause (economiche, sociali, psicologiche, valoriali, etiche, religiose, culturali, ecc…) che sono alle origine dei fenomeni.
Nel farlo occorre utilizzare un criterio che è quello dei giudizi di possibilità oggettiva. Ovvero: quando si studia un fenomeno, occorre chiedersi fra le cause che lo hanno determinato quelle che si sono mostrate effettivamente necessarie alla sua concretizzazione e quali no.
Questo porta a distinguere fra:
cause accidentali = che sono quelle che non rappresentano la spiegazione effettiva di un fenomeno
cause adeguate = quelle senza le quali un certo fenomeno non si sarebbe sviluppato così come è poi realmente accaduto.

Weber però in questo senso invita a fare attenzione fra:
cause necessarie = sono le cause all’origine dei fenomeni naturali, che una volta attivate producono necessariamente un certo effetto
cause possibilitanti = sono le cause all’origine dei fenomeni sociali, che servono a spiegare un certo oggetto storico, ma non necessariamente producono un certo effetto. Ad esempio: in due contesti sociali ritroviamo le stesse caratteristiche economiche, religiose e via dicendo, ma questo non vuol dire che poi i due contesti evolveranno nella stessa maniera.

2.4 LA TEORIA DEI TIPI IDEALI

Tutta la riflessione svolta finora porta Weber a formulare la teoria dei tipi ideali.
La domanda che infatti si pone il sociologo è: come facciamo a distinguere fra le varie cause quelle effettivamente adeguate?
La risposta che si dà è: facendo ricorso alle regole generali dell’esperienza. Queste emergono dall’esperienza storica come comportamento tipico in un certo contesto. Facciamo un esempio: quando gli antichi persiani conquistavano una popolazione solitamente si comportavano in un certo modo, quindi dobbiamo presupporre che se avessero conquistato la Grecia (cosa che nella realtà storica non è accaduta) dobbiamo immaginare che avrebbe eliminato il regime democratico ad Atene, perché abitualmente non lasciavano in piedi regimi contrari alla propria ideologia.

Queste regole generali dell’esperienza sono dunque delle teorizzazioni che prendono vita a partire dallo studio della realtà. Quando queste regole sono portate a una concettualizzazione estrema si producono i tipi ideali, che possono essere definiti come quadri concettuali uniformi.

I tipi ideali sono dunque delle concettualizzazioni, dei modelli teorici di realtà storiche, che nascono uniformando e portando a un estremo teorico le tendenze generali di realtà fra di loro simili.
Facciamo un esempio. Un caso di tipo ideale è quello di assolutismo, ovvero un regime politico in cui il monarca ha tutti i poteri. Il modello teorico dell’assolutismo nasce perché gli studiosi notano che fra il ‘500 e il ‘600 molti monarchi adottano strategie comuni nel consolidare il loro potere e quindi le loro azioni vengono fatte rientrare in un quadro teorico ed ideale che serve da confronto.
Ad esempio, visto che una azione tipica dei regimi assolutisti è il controllo delle chiese nazionali, si assume che una caratteristica del tipo ideale di assolutismo è il pieno controllo della chiesa nazionale da parte del monarca.
A questo punto i vari regimi che definiamo assolutisti possono essere studiati per la vicinanza o meno a questo tipo ideale adottando come criterio, sempre rimanendo nell’esempio, il livello di controllo della chiesa nazionale.

Questi tipi ideali nella teoria storica sono tanti (il feudalesimo, il capitalismo, il liberalismo, ecc…) e rappresentano dei quadro perfetti che non trovano mai concretezza piena nella realtà storica, ma ci forniscono una chiave per comprenderla e per porci le domande metodologiche adeguate per distinguere le cause alle origini dei fenomeni.
Ma attenzione: questi tipi ideali non sono delle idee assolute e sempre valide, ma sono rimodellati costantemente dalla ricerca storica, che è in continua evoluzione perché cambia il quadro dei valori che, come dicevamo all’inizio, mette in movimento la ricerca dello scienziato sociale.

3. La teoria della modernità

Passiamo ora al secondo grande tema, ovvero quello della sua riflessione di Weber sui processi che caratterizzano la modernità.
Seguiamo la sua riflessione lungo quattro temi-chiave:
1. l’agire umano
2. il capitalismo e il rapporto fra religione ed economia
3. il disincantamento del mondo
4. il potere

3.1 L’AGIRE UMANO

Weber, in quanto sociologo, è particolarmente interessato all’analisi dell’agire umano.
Il suo studio parte da due premesse:
1. è possibile individuare degli atteggiamenti uniformi ovvero che ricorrono in maniera generale nell’agire degli uomini
2. che l’agire è sempre mosso da un’intenzione del soggetto verso l’esterno. Ovvero il nostro agire vuole sempre avere una ricaduta sociale
Date queste premesse, Weber individua quattro tipi di agire sociale, ovvero quattro modelli generali:

                1. agire razionale rispetto allo scopo = per realizzare un obiettivo si applicano gli strumenti che permettono il perseguimento in maniera più funzionale possibile (es. devo montare una sedia, seguo in maniera rigorosa le istruzioni)

                2. agire razionale rispetto al valore = si agisce in maniera sempre calcolata ma non per seguire un obiettivo pratico ma per rispettare dei valori in cui si crede (ad es. tuffarsi nel mare agitato per salvare delle vite anche mettendo a rischio la propria, perché si crede nel valore della vita)

                3. agire affettivo = si agisce non secondo calcolo razionale, ma seguendo le emozioni

                4. agire tradizionale = si adottano certi comportamenti non per un fine razionale, ma adagiandosi ad un costume consolidato

Il primo modello è quello che Weber considera più legato alla descrizione della modernità. Non a caso caratteristiche della modernità sono:
-il sistema economico capitalista
-il sistema amministrativo burocratico
In entrambi i casi si tratta di sistemi fondati sulla funzionalità razionale dei loro processi.

3.2 IL CAPITALISMO E IL RAPPORTO RELIGIONE-ECONOMIA

Come abbiamo appena visto una caratteristica della modernità è l’imporsi del sistema economico capitalista. A Weber si deve una delle più note riflessioni sulle cause del sorgere di questo sistema, una riflessione che lo pone in antitesi a Marx.
Mentre Marx infatti sostiene che la società va sempre analizzata in ottica economica, dunque è il sistema economico la causa di tutte le altre manifestazioni sociali (arte, cultura, religione, forma di stato, leggi, ecc…).
Weber muove una doppia critica a questo approccio, sostenendo che:
1. la lettura della società deve essere sempre fatta da prospettive molteplici
2. che nella sua analisi Marx esprime una valutazione dei sistemi storico-economici (in particolare ponendo in accento le ingiustizie sociali), mentre lo studioso non deve mai esprimere giudizi di merito, come abbiamo visto nella costruzione del metodo storico.

In opposizione all’approccio di Marx, Weber produce un’analisi diversa del capitalismo andando a vedere come può essere l’impostazione religiosa a creare le cause per l’insorgere di un certo sistema economico.
Weber distingue tre possibili approcci che la religione ha nei confronti dell’economia:
1. L’indifferenza = approccio ad esempio tipico del confucianesimo
2. L’ostilità = approccio ad esempio tipico del buddhismo
3. La volontà regolatrice = approccio ad esempio tipico del calvinismo
Proprio su quest’ultimo aspetto Weber produce una delle sue riflessioni più note, da cui nasce il libro L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05).
Ribaltando l’ottica marxiana, Weber sostiene che le precondizioni della nascita del capitalismo vanno ricondotte alla diffusione delle riforme protestanti, e del calvinismo in particolare, tanto che si può notare come lo sviluppo capitalista avviene là dove più penetrante è stata la riforma di Calvino. Questo perché il calvinismo ha creato una mentalità adatta a quello che sarà l’approccio imprenditoriale del capitalismo.
Calvino infatti sostiene che uno dei segni della grazia divina è il successo lavorativo. Questa impostazione favorisce così il prodursi di pratiche lavorative volte a ottimizzare il profitto, creando una cultura che esalta il successo economico e quindi permette il diffondersi di una mentalità imprenditoriale che genera quella che sarà la rivoluzione industriale, da cui poi si impone pienamente il modello capitalista.

3.3 IL DISINCANTAMENTO DEL MONDO

Se il calvinismo pone le basi del capitalismo, questo non vuol dire che l’approccio che si ha nel Cinquecento e Seicento – ovvero quando il calvinismo avvia la sua diffusione – sia identico a quello che si avrà dopo. Se nella prima fase il profitto è visto come legato a una visione religiosa del mondo, dunque cercare il profitto vuol dire cercare la grazia di Dio, in una seconda fase non sarà più così. Una volta che il capitalismo è maturato, il profitto non viene più ricondotto a una sfera religiosa, ma diventa fine a sé stesso.
Questa evoluzione è una delle conseguenze di quello che Weber definisce: disincantamento del mondo.
Cosa intende con questa definizione Weber?

Secondo il sociologo, nel corso dei secoli si è manifestato un notevole cambiamento nel rapporto fra l’uomo e il mondo.
1) A lungo l’uomo ha avuto col mondo un rapporto magico-sacrale, ovvero ha visto il mondo come dominato da forze misteriose, magiche, sovrannaturali, divina.
2) Poi attraverso un processo di razionalizzazione è arrivato ad avere un rapporto disincantato col mondo, ovvero vede il mondo come privo di presenze spirituali e divine, ed ha quindi un approccio freddo, calcolatore nei confronti del mondo. Questo ha anche permesso all’uomo di pensare al mondo come a un qualcosa sotto al suo dominio, grazie allo sviluppo della tecnica e della scienza.
La conseguenza del disincantamento del mondo produce però anche una lacerazione dell’individuo = = perso il senso del sacro, gli uomini hanno perso una visione globale del mondo, il senso ultimo dell’esistenza.

3.4 IL POTERE

All’inizio di questa parte dedicata alla riflessione sulla modernità, abbiamo visto come il punto di partenza dell’analisi sociologica di Weber è la distinzione dei tipi dell’agire umano.
Una delle sfere fondamentali dell’agire umano è quella legata all’esercizio del potere. Anche in questo campo Weber ha prodotto una delle riflessioni intellettuali che più hanno influenzato il Novecento.
Il sociologo tedesco distingue tre forme di potere:
1) il potere legale-razionale = obbedire a una certa istituzione perché i funzionari che vi agiscono all’interno sono legittimati dalla legge
2) il potere tradizionale = obbedire a una certa istituzione perché questa trova la sua legittimità in una consolidata tradizione (es. il suddito che obbedisce al monarca innanzitutto per reverenza)
3) il potere carismatico = obbedire a una singola persona che emana un enorme fascino (in questo caso dunque non si rispettano né la legge né la tradizione, bensì il capo in quanto tale).
Fatta questa distinzione Weber sottolinea però anche due aspetti:
1. nella realtà concreta questi tipi ideali si mischiano fra di loro dando vita alle formazioni più variegate
2. in ogni caso il potere presuppone sempre un carattere carismatico, per cui in qualche misura si subisce sempre il fascino chi effettivamente detiene il potere al di là dell’obbedienza dovuta dalle leggi

Fatte queste dovute precisazioni Weber sostiene che la caratteristica dello stato moderno è che esso è tale perché detiene il monopolio della forza e che questo deriva dalla legittimità delle leggi, dunque cifra caratteristica del mondo moderno è il potere legale-razionale.

4. L’etica del politico

Come abbiamo appena visto Weber è particolarmente interessato all’analisi della sfera dell’esercizio del potere. Questo lo porta ad una dei suoi ultimi più noti interventi che analizziamo in maniera molto rapida: l’analisi sulla valutazione nell’agire politico, trattata in particolare nel saggio La politica come professione (1919), frutto di un intervento in una conferenza.

La politica, sostiene Weber, è un agire che dunque contempla intenzioni e risultati che possono essere valutati secondo due prospettive:

-la prospettiva dell’etica dell’intenzione = valutare l’agire politico sulla base dell’intenzione che determina le azioni, quindi ai valori ideologici che muovono le azioni politiche, a prescindere dai risultati concretamente raggiunti (es. estremo: se per realizzare una società migliore il politico ritiene che occorre eliminare fisicamente gli avversari politici, quello che conta non è il risultato, ovvero la violenza fisica, ma l’intenzione ideologica alla base, ovvero l’aspirazione a un mondo più giusto)

-la prospettiva dell’etica della responsabilità = valutare l’agire politico sulla base di quanto concretamente prodotto, non delle convinzioni morali ed ideologiche che sono alla base dell’azione

Fra le due prospettive Weber predilige la seconda, perché secondo il suo approccio realista pone in primo piano le conseguenze reali di un’azione e non le sue intenzioni più o meno ideali. Ciò nonostante Weber non chiude la porta all’etica dell’intenzione, nel momento in cui afferma che: “l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche, ma si completano a vicenda, e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione alla politica”.




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