1. Libera e l’elenco delle vittime di mafia
Nel 2017 il Parlamento italiano ha approvato, con la legge 20/2017, l’istituzione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie (21 marzo).
Questa legge è il frutto di un lungo percorso che ha visto come protagonista l’associazione Libera contro le mafie, un’organizzazione guidata da don Ciotti che da alcuni decenni si è ormai affermata come la più estesa e radicata nel movimento dell’associazionismo antimafia.
Già dal 1996, Libera ha eletto il 21 marzo come giornata di mobilitazione e di ricordo delle vittime di mafia, prendendo come data simbolica quella dell’inizio della primavera, in segno di rinascita. Ogni anno viene scelta una città che diventa meta di un pellegrinaggio come forma di testimonianza e di impegno civile: nel 1996 si è iniziato da Roma, poi di volta in volta la meta è cambiata, da Niscemi a Reggio Calabria, da Modena a Firenze, e via dicendo, nell’ottica di rendere sempre più nazionale il discorso antimafia.
Nel cuore della giornata del 21 marzo vi è la lettura dell’elenco delle vittime di mafia. Un elenco stilato da Libera è che attualmente conta 1055 nomi e che non risulta più aggiornato dal 2018.
L’intera forma di questa manifestazione assume i toni di una vera e propria liturgia civile: il percorso verso i luoghi della memoria si trasforma in pellegrinaggio, la lettura delle vittime risuona come una sorta di rosario civile in un’ottica in cui il ricordo si trasforma in preghiera di speranza.
Come si può notare facilmente, il linguaggio è fortemente intriso di influenza religiosa, il che non deve stupire. Questo linguaggio non solo è profondamente radicato nell’immaginario italiano e nelle modalità di ricordo delle varie vittime che di volta in volta sono state elevate a martiri della patria, ma è ancor di più radicato nell’associazionismo antimafioso. Se nel corso dei decenni le strutture della Chiesa hanno avuto un rapporto opaco con la mafia e solo negli ultimi anni le gerarchie più elevate hanno preso una posizione chiara e netta (come la scomunica ai mafiosi comminata da papa Francesco nel 2014), una parte importante del movimento antimafia dal basso invece sin dagli anni Ottanta è stato stimolato da parroci di strada. Lo stesso don Ciotti, ispiratore di Libera, è espressione di questo approccio.
Questo lavoro è stato particolarmente importante, dal momento che uno strumento che le mafie utilizzano per costruirsi un consenso territoriale è proprio quello di dimostrarsi aderenti ai valori religiosi, per cui il movimento che si è sviluppato a partire da diverse parrocchie si è posto proprio nell’ottica di contrastare questa falsa rappresentazione mafiosa.
Tornando al tema dell’elenco dell’elenco delle vittime, intorno a cui ruota la nostra riflessione, la prima cosa che salta all’occhio è che da esso possiamo ricostruire come nel corso del tempo le mafie abbiano colpito la società italiana in maniera trasversale: da esponenti dell’alta finanza (come Emanuele Notarbartolo nel 1893) a uomini delle forze dell’ordine (come nella strage di Ciaculli del 1963), da politici (come Marcello Torre nel 1983) a militanti antimafia (come Peppino Impastato nel 1978), da giornalisti (come Giancarlo Siani nel 1985) a parroci come don Peppe Diana (nel 1994), arrivando agli omicidi più noti, come ad esempio quelli dei magistrati Falcone e Borsellino (1992).
Proprio a partire da questo lungo elenco nasce lo stimolo per la domanda forse più importante: perché celebriamo queste vittime e soprattutto, perché lo facciamo a livello ufficiale solo dal 2017?
La risposta a questa domanda ci porta a riflettere su come è cambiato nel corso del tempo l’immaginario legato alle vittime di mafia e quindi, in generale, a come è mutato l’approccio al problema nell’evoluzione della nostra storia repubblicana.
Per trovarla questa risposta, dobbiamo invece andare un po’ più a fondo e ripercorrere rapidamente alcune vicende relative ai nomi delle vittime di mafia.
2. La strage di sindacalisti nel secondo dopoguerra
Anche soltanto sfogliando rapidamente l’elenco di questi nomi, salta subito all’occhio come questa storia di morti sia segnata da due importanti accelerazioni, ovvero ci sono due momenti in cui il numero di vittime cresce in maniera esponenziale: gli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra e il lungo periodo che va dalla fine degli anni Settanta agli inizi degli anni Novanta.
Soffermiamoci ora sulla prima di queste due fasi.
Per farlo dobbiamo ricordare rapidamente il contesto storico: dal 1943 l’Italia si divide in due, il Sud è liberato dagli Alleati e si mantiene la continuità istituzionale della monarchia; nel Nord invece rimane l’occupazione nazifascista e inizia in maniera più strutturata la Resistenza partigiana.
Sin dall’indomani della liberazione, nel Sud, specialmente in Sicilia, prende corpo un movimento contadino che chiede una profonda riforma agraria e la redistribuzione delle terre in mano ai latifondisti. Alla testa di questo movimento vi sono coraggiosi e impegnati sindacalisti della Cgil che guidano i contadini all’occupazione delle terre e alle proteste contro i latifondisti.
Questo movimento si scontra con il mondo agrario da un lato – un mondo tutto teso a conservare i propri privilegi – e con il mondo mafioso dall’altro. Qui la questione è più complessa: da una parte i mafiosi rappresentano il braccio armato degli agrari e si pongono a difesa del latifondo; dall’altro invece sono i mafiosi stessi che ambiscono a prendere possesso delle terre e quindi vedono nel movimento contadino un pericoloso concorrente.
Il risultato di queste tensioni è che dal 1945 iniziano una serie di violenze nei confronti dei contadini e, soprattutto, un omicidio dopo un altro si realizza una vera e propria strage di sindacalisti: più di trenta cadono fra il ’45 e il ’48. Fra questi il nome forse più noto è quello del socialista corleonese Placido Rizzotto, ucciso nel 1948 e il cui corpo risulterà disperso per decenni. Sul nome di Rizzotto torneremo perché la sua vicenda racchiude simbolicamente l’intera parabola del discorso che stiamo affrontando.
Sempre dentro a questa scia, quasi silenziosa, di violenze, si colloca poi uno degli episodi più cruenti della storia repubblicana e la cui eco ha dato nel corso del tempo adito a tutta una serie di ricostruzioni e interpretazioni: la strage di Portella delle Ginestre. Siamo al primo maggio del 1947 e la banda di Salvatore Giuliano spara sulla folla che sta festeggiando la festa dei lavoratori.
Quello che è degno di nota, diciamo così, è che tutta questa violenza resta sostanzialmente impunita, con l’eccezione di alcuni banditi puniti per la strage di Portella, ma senza l’individuazione dei veri mandanti dell’azione sanguinaria.
Oltre a rimanere impunita tutta questa stagione di violenze, quello che più colpisce è il clima istituzionale in cui tutto si svolge.
Per quanto riguarda Rizzotto, ad esempio, un ancora giovane ufficiale dei carabinieri, Carlo Alberto dalla Chiesa, svolge l’indagine e individua gli assassini, ma poi il processo si concluderà con l’assoluzione per insufficienza di prove. L’assoluzione non è che il frutto di un’azione istituzionale vaga e debole (fatte salve singole eccezioni come dalla Chiesa), un’azione che riflette una percezione di queste vittime molto particolare da parte delle istituzioni dell’epoca. Facciamo un solo unico esempio che potrebbe essere replicato per ogni singolo sindacalista: nel 1948 il prefetto di Palermo, scrivendo un rapporto sull’omicidio Rizzotto scrive che il sindacalista “risultava pregiudicato per
furto aggravato continuato, tentata rapina, altri furti, istigazione a delinquere». Queste varie denunce erano legate all’azione di Rizzotto come guida dei contadini e il riproporle da parte del prefetto serviva esclusivamente a dipingere la figura del corleonese al pari di un comune delinquente, morto dunque all’interno di una qualche bassa vicenda della criminalità. Praticamente l’operazione culturale, possiamo tranquillamente usare questo termine, è quella di ribaltare i ruoli di vittime e carnefici.
Interessante anche quanto avviene intorno alla strage di Portella e le trame che da questa si dipanano. Su questa vi è un’amplissima letteratura e non è qui ora il caso di aprire questo capitolo: limitiamoci a riportare alcuni passaggi che della sentenza del processo di Viterbo per i fatti relativi alla strage e soprattutto alle azioni intraprese in seguito dalle forze dell’ordine. Scrivono i giudici che i vari agenti delle forze dell’ordine si resero protagonisti di “fatti eccezionali e abnormi”, comportamenti che però erano giustificabili alla luce di un contesto fatto di “congiura del silenzio” e “ambiente focoso”. La corte addirittura a scrivere di una “impotenza di fronte alla mafia che si era generosamente prestata alla eliminazione della banda Giuliano”.
Tutti questi temi meriterebbero di essere approfonditi ma il discorso diventerebbe molto lungo. Quello che qui preme sottolineare è il clima relativo alle vittime di mafia e al comportamento degli apparati statali. Quello che emerge è un sostanziale disinteresse per le vittime “politiche” della mafia e una percezione del fenomeno mafioso alquanto alterata.
A ulteriore prova di questo clima vi è un famosissimo elogio funebre scritto nel 1954 da un procuratore della Repubblica, Giuseppe Guido Lo Schiavo, in occasione della morte di un boss mafioso dell’entroterra, Calogero Vizzini: “Si è detto che la mafia disprezza polizia e
magistratura; è un’inesattezza. La mafia rispetta la magistratura e la giustizia. Nella
persecuzione ai banditi e ai fuorilegge la mafia ha affiancato le forze dell’ordine. Possa
l’opera del successore di don Calogero Vizzini essere indirizzata sulla via del rispetto
della legge».
Detto tutto ciò, la domanda che dobbiamo porci è: perché? Per quale motivo dalle istituzioni emerge una percezione del fenomeno mafioso così diversa da quella attuale? La risposta è nel contesto storico.
L’Italia del dopoguerra entra rapidamente nel clima della guerra fredda. La politica si spacca: la Democrazia Cristiana diventa il perno delle forze atlantiste, socialisti e comunisti passano all’opposizione e rappresentano il fronte filosovietico.
Questa macrostoria si intreccia con la “piccola” storia siciliana: a guidare il movimento contadino vi sono le sinistre, che denunciano i partiti di governo come collusi con la mafia. Di fronte a queste accuse, in un’atmosfera politica che non permette nessun riconoscimento dell’avversario, l’accusa viene ribaltata spacciando quelle socialcomuniste come speculazioni, atti di propaganda e forme di diffamazione. La narrazione viene ribaltata: se socialisti e comunisti insistono sulla pericolosità sociale del fenomeno mafioso, tutto il mondo delle istituzioni racconta una mafia diversa, non un fatto criminale ma un residuo comportamentale del passato destinato ad essere superato. Su questa strada si arriva a teorizzare che “la mafia non esiste”. E se la mafia non esiste, non vi è alcun fenomeno da perseguire legalmente.
3. L’attacco allo Stato
Le cose cambiano notevolmente quando invece guardiamo alla seconda impennata di omicidi che inizia dalla fine degli anni Settanta.
Questa accelerazione si fa intensa dal 1979, quando vengono uccisi l’ispettore Boris Giuliano e il giudice Cesare Terranova. Si apre una scia di sangue in cui cadono importanti rappresentanti delle istituzioni: il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella (1980); il magistrato Gaetano Costa (1980); il parlamentare comunista Pio La Torre (1982); il generale Carlo Alberto dalla Chiesa (1982). Sono solo alcuni nomi di una lista tristemente più ampia. Questa stagione raggiunge l’apice con le stragi del 1992-93, di cui le più celebri, per il loro impatto, sono quelle di Capaci e via d’Amelio che hanno come obiettivo i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
La domanda sorge spontanea: perché questa accelerazione?
La risposta più immediata è che c’è un cambiamento interno alla stessa Cosa nostra. Le famiglie tradizionalmente più importanti di Palermo, quelle dei Bontate e degli Inzerillo, vengono attaccate e scalzate dai corleonesi di Riina e Provenzano. Questo attacco raggiunge l’apice con la cosiddetta “seconda guerra di mafia” del 1981-82, in cui si registrano centinaia e centinaia di omicidi (quasi tutti ai danni del fronte dei palermitani).
Questo conflitto ha ricadute sulle vittime di mafia, perché alcuni dei più attenti rappresentanti delle forze dell’ordine e delle istituzioni si mettono sulle tracce di questa escalation interna a Cosa nostra e vengono uccisi.
Questa violenza nei confronti degli uomini di Stato ha però origini “culturali” di più ampio respiro: da anni la mafia è abituata all’impunità, di conseguenza è abituata a poter usare liberamente la violenza; inoltre, il contesto storico è quello dell’Italia del terrorismo e la violenza politica è ormai diventato una pratica “normale”, che la mafia stessa respira e fa sua.
Ma a differenza di quanto accadeva nel secondo dopoguerra, la percezione del fenomeno è mutata, stavolta lo Stato fronteggia il problema.
Nel 1982 viene approvata la legge La Torre-Rognoni che istituisce il reato di associazione mafiosa e lo colpisce, fra le altre cose, con la confisca dei beni.
Parallelamente iniziano le indagini di un nuovo strumento giudiziario, il pool antimafia di Palermo, che riesce a istituire il maxi processo che si svolge a partire dal 1986 contro centinaia di esponenti mafiosi.
Questi fermenti si accompagnano alla nascita di un movimento civile antimafia che si diffonde e si radica: a Palermo nasce la cosiddetta “primavera” una stagione politica segnata dall’ascesa del sindaco Leoluca Orlando che rivendica come valore costitutivo proprio quello dell’antimafia.
Lo Stato alza dunque il tiro e si diffonde un sentimento antimafioso nuovo: molti degli omicidi sono dovuti proprio a questo. Cosa nostra reagisce con la violenza di fronte alla repressione e al consolidamento di un linguaggio ora ostile.
Alla fine degli anni Ottanta la curva degli omicidi cala, perché la mafia vuole abbassare i toni mentre si svolge il processo di Palermo: quando poi agli inizi del 1992 la Cassazione infligge durissime condanne, abbiamo un’ultima più intensa stagione di violenze, con le stragi e quello che ormai è considerato un vero e proprio attacco allo Stato, un tentativo di ridefinire le sentenze attraverso una strategia quasi golpista.
4. L’antimafia come nuova Resistenza
Questa intensa stagione ridefinisce culturalmente la percezione del fenomeno mafioso. Dalla “mafia non esiste” degli anni Cinquanta si passa a definire la lotta alla mafia come forma di nuova Resistenza. (Parte dello) Stato e (larga parte della) cittadinanza si sentono investite da una vera e propria guerra contro le mafie.
Questo sentimento è sintetizzato dalle parole del presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, nel luglio 1992, che di fronte alle stragi lancia un appello: “resistere, resistere, resistere”.
Allarghiamo ulteriormente lo sguardo: fra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta si sfalda il consenso tradizionale verso i partiti e lo Stato, la prima Repubblica finisce la sua storia fra scandali e inchieste.
Le stragi di mafia contribuiscono a inquinare il clima e i rappresentanti delle istituzioni che cadono sotto i colpi criminali vengono assunti a veri e propri martiri della patria: simboleggiano quella parte migliore dello Stato che fonda i suoi valori sull’onestà e l’integrità morale.
Tutto questo porta a una svolta culturale decisiva. La mafia è descritta come forza in lotta contro lo Stato, le sue vittime diventano combattenti per la difesa della patria. In un’Italia che per molti versi smarrisce i suoi riferimenti valoriali nel passaggio fra le cosiddette prima e seconda Repubblica, i valori dell’antimafia diventano un paradigma su cui ricostruire un’identità nazionale.
Così come la Repubblica è sorta dalla lotta della Resistenza antifascista, ora la nuova seconda Repubblica trova nell’antimafia una nuova Resistenza su cui costruire un’identità valoriale. Le vittime della mafia diventano i nuovi partigiani, i nuovi combattenti per la patria.
In questa operazione culturale, viene recuperata anche la memoria dei sindacalisti uccisi nel dopoguerra.
Questa memoria è stata coltivata nel tempo solo dalle forze politiche e sociali che si riconoscevano nel campo identitario delle vittime del dopoguerra ed esclusa, come abbiamo visto, dal pantheon istituzionale.
Ora le cose cambiano e la lotta antimafia del secondo dopoguerra viene descritta dalle istituzioni come la Resistenza del sud: mentre a Nord i partigiani lottavano contro i nazifascisti, anche il Sud conosceva il suo riscatto morale lottando contro la mafia.
Questa operazione culturale raggiunge la sua perfetta conclusione con il viaggio in Sicilia del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel 2012. Napolitano, oltre a celebrare il ventennale delle stragi di Capaci e via d’Amelio, compie due atti altamente simbolici: si reca a Portella delle Ginestre per commemorare le vittime del 1947 (primo presidente della Repubblica a farlo) e partecipa alla celebrazione dei funerali di Placido Rizzotto, che proprio nel 2012 sono finalmente possibili grazie al ritrovamento e al riconoscimento del cadavere.
Con questo pellegrinaggio della memoria di Napolitano il cerchio si chiude: le vittime del secondo dopoguerra vengono ricollegate a quelle degli anni Ottanta-Novanta per la creazione di una memoria condivisa.
5. Conclusioni
Lo storico Giovanni de Luna ha scritto nel 2011 un libro, La repubblica del dolore, in cui ha analizzato come le istituzioni statali, contestate e percepite come corrotte, abbiano cercato negli ultimi decenni di costruire una propria identità aggrappandosi alla memoria delle vittime. In questa operazione spesso si è finito per rincorrere le associazioni civili le quali, in una sorta di competizione, hanno rivendicato la priorità del ricordo delle proprie vittime.
Il risultato è che spesso la memoria ha finito così per non essere accompagnata da una più opportuna analisi storia, rincorrendo invece l’esaltazione del dolore.
La stessa cosa si può sottolineare anche per la creazione della memoria antimafia. Associazioni come Libera hanno avuto un ruolo meritorio nel creare una coscienza civile, ma lo Stato è venuto meno al suo compito limitandosi a inseguire. Questo non solo ha prodotto un ritardo nella costruzione di una memoria condivisa (tanto che se Libera celebra la giornata del ricordo dal 1996, lo Stato lo fa solo dal 2017), ma ha finito per lasciare ad associazioni private il monopolio di questa memoria, senza fare i conti con le eventuali lacune.
Un esempio è lo stesso elenco delle vittime di mafia, recitato come un rosario ma senza interrogarsi sulle sue mancanze.
In questo elenco mancano infatti molti nomi di epoche più lontane, come la fine dell’Ottocento o gli inizi del Novecento. Mancano poi alcuni nomi come parenti di mafiosi uccisi nelle faide criminali. E invece trovano spazio alcuni nomi di vittime straniere, simboli dell’impegno civile, ma uccisi fuori dall’Italia, da gruppi stranieri e in ambiti extramafiosi.
Tutto questo per dire che quando si fa politica della memoria e basta molti criteri saltano, mentre lo Stato potrebbe stimolare la ricerca storiografica per giungere a una conoscenza più precisa e accurata di questioni molto importanti per la comunità nazionale.