Kant: la Critica del giudizio

Introduzione

Nella Critica del giudizio Kant analizza la sfera del sentimento. Con questo termine Kant intende la facoltà dell’uomo di fare esperienza della finalità del reale.

La possibilità di conoscere effettivamente il fine dei fenomeni della realtà è escluso da Kant nella Critica della ragion pura, nel senso che il filosofo esclude la possibilità di esprimere una conoscenza valida e certa di una visione finalistica della natura.
Ciò nonostante, Kant sostiene che l’uomo avverte inesorabilmente una esigenza naturale nel cercare tale fine nella natura. È dunque questo sentimento, questa esigenza che viene studiata dalla Critica del giudizio, partendo appunto dalla premessa fondamentale: questo sentimento non può essere oggetto di un’analisi che porti a una conoscenza di tipo scientifico.

Questa premessa è riassunta nella distinzione che Kant fa tra giudizi determinanti e giudizi riflettenti:
-i giudizi determinanti sono quelli che l’uomo esprime a proposito della realtà fenomenica attraverso le sue forme a priori e che costituiscono giudizi che esprimono una conoscenza di tipo scientifico. Questi giudizi ovviamente sono studiati nella Critica della ragion pura;
-i giudizi riflettenti invece sono quelli che nascono dalla riflessione dell’uomo di fronte alla natura e di fronte al tentativo di comprenderne la finalità. I giudizi riflettenti sono appunto quelli studiati nella Critica del giudizio.

I giudizi riflettenti

Kant individua due tipi fondamentali di giudizi riflettenti:

-il giudizio estetico che nasce dall’intuizione

-il giudizio teleologico che nasce dalla comprensione

La differenza fra i due giudizi sta nella immediatezza: il giudizio estetico arriva in maniera intuitiva, senza ragionamento, ed è di natura soggettiva; il giudizio teleologico nasce invece dalla concettualizzazione ed è di natura oggettiva

Facciamo un esempio: di fronte alla vista di un bel tramonto abbiamo la sensazione immediata, senza doverci riflettere, di come i colori del cielo appaiano armonici e in sintonia con noi stessi; in questo caso esprimiamo un giudizio estetico. Di fronte invece alla vista di uno scheletro in un museo di scienze naturali comprendiamo come quella struttura abbia il fine di sorregge il corpo dell’animale a cui apparteneva: in questo caso esprimiamo un giudizio teleologico.
Attenzione però: nonostante i giudizi estetici appaiono soggettivi, ovvero legati ad un sentimento espresso dal singolo, e i giudizi teleologici appaiono oggettivi, in quanto rimandano a una finalità che tutti possono osservare, in entrambi i casi siamo di fronte in realtà a un bisogno soggettivo della mente di trovare un fine, un’armonia nell’ordine naturale delle cose.

I giudizi teleologici sono quelli che ci mostrano la natura al di là dei suoi aspetti meccanici, anche se, è sempre il caso di ricordarlo, questi giudizi non possono portare a una conoscenza effettiva. Essa è infatti possibile solo nella ricostruzione dei meccanicismi naturali.
Qui ci concentriamo invece sui giudizi estetici, la cui analisi fonda la filosofia estetica kantiana, ovvero la riflessione di Kant in merito ai concetti di arte e bellezza.

I giudizi estetici innanzitutto possono essere rivolti a due forme: al bello e al sublime. Il bello è il sentimento dell’armonia. Il sublime viceversa è il sentimento che nasce dall’incontro con l’eccesso, con ciò che appare smisurato.

Il sentimento della bellezza

Iniziamo con la riflessione di Kant sul sentimento della bellezza.

A proposito del concetto di bello, Kant sostiene la differenza fra campo del piacevole e campo del piacere estetico:
-il piacevole nasce dai giudizi estetici empirici, ovvero dai giudizi che il singolo esprime in base alla sua individualità. In altri termini, il campo del piacevole è legato all’idea soggettiva di bellezza, rientra nel concetto di “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”;
-viceversa, il piacere estetico nasce dai giudizi estetici puri, i quali a differenza dei primi rimandano a una universalità, a una pretesa di oggettività.

Questi giudizi, che sono quelli su cui ruoto l’estetica kantiana, non possono essere espressi per tutto. Kant in particolare distingue fra bellezza aderente e bellezza libera:
-la bellezza aderente è quella che si rifà a certi canoni estetici di una certa cultura. Questi non possono essere oggetto di giudizi estetici puri, in quanto sono legati alle mode o ai punti di vista di singole civiltà (ad esempio tali giudizi non possono essere espressi di fronte a un monumento che si rifà a un certo stile architettonico o a un vestito che esprime una certa moda);
-la bellezza libera è invece legata a ciò che è al di là di stili, mode e punti di vista. È la bellezza che Kant definisce senza concetto e che nasce ad esempio in una musica senza testo, come ad esempio una sinfonia, o dalla vista della natura. Questo tipo di bellezza ha la possibilità di parlare un linguaggio universale e quindi può essere oggetto di giudizi puri.

Fatta questa distinzione, Kant spiega quali devono essere le caratteristiche della bellezza per produrre un piacere estetico, individuandone quattro:

1) Il bello è l’oggetto di un “piacere senza interesse” = la bellezza può essere universale se contemplata senza un tornaconto personale (ad esempio la bellezza di un campo non è legata al possibile guadagno che se ne può trarre coltivando questo terreno)

2) Il bello è ciò che “piace universalmente senza concetto” = la bellezza non può essere legata ad un ragionamento sul meccanismo che la produce (ad esempio la bellezza di una sinfonia di Beethoven sta nella sua percezione spontanea, non nel ragionamento sulla perfezione o meno del suo stile)

3) Il bello è “la forma della finalità di un oggetto senza la rappresentazione di uno scopo” = la bellezza universale non è inquadrabile in schemi conoscitivi, è sempre spontanea (quindi questa definizione non può essere applicata ad una certa opera che si rifà a dei canoni stilistici)

4) Il bello è “oggetto di un piacere necessario” = la bellezza mette tutti d’accordo, anche se non è possibile trovare una spiegazione logica di questa sua universalità.

Determinate le caratteristiche dell’universalità del giudizio estetico, Kant si trova a questo punto impegnato a dover giustificare il perché sia possibilità l’universalità del giudizio estetico. Non quindi cosa sono i giudizi estetici puri, ma perché essi sono possibili. Questa giustificazione è definita da Kant “deduzione dei giudizi estetici puri”, al pari della “deduzione trascendentale delle categorie”, presente nella Critica della ragion pura.

Il cuore della deduzione dei giudizi estetici puri sta nell’individuazione di una struttura comune del gusto, che Kant definisce anche senso comune. Anche in questo caso Kant compie dunque una “rivoluzione copernicana”, stavolta di natura estetica: il bello non è nella natura, fuori dall’uomo, ma nella struttura mentale stessa dell’uomo. Dice Kant: “le belle forme sono in natura, la bellezza è nell’uomo”.

La bellezza nell’arte: il genio

La riflessione fatta finora sulla bellezza può essere approfondita rispetto al tema dell’arte che conduce Kant a una nota riflessione sulla natura del genio.
La bellezza nella natura e nell’arte riflettono la stessa struttura, in quanto si può distinguere fra:
arte piacevole = che nasce con uno scopo (ad esempio intrattenere) e dunque è soggetta a valutazioni di tipo soggettivo
arte bella = che invece non ha uno scopo preciso, produce un piacere disinteressato e dunque è oggetto di valutazioni universali

L’arte bella è il frutto del lavoro del genio. La figura del genio è descritta da Kant attraverso tre caratteristiche.

1) Il genio è colui che crea in maniera originale, dunque senza rifarsi a schemi già presenti

2) Il genio è colui che produce opere esemplari, che dunque diventano modello per gli altri

3) Il genio produce l’opera d’arte attraverso un’intuizione, un processo dunque che non può essere spiegato e ripercorso in maniera razionale

Il sentimento del sublime

Passiamo ora all’altro sentimento che è prodotto dai giudizi estetici accanto a quello della bellezza: il sentimento del sublime.

Come si diceva il sublime è ciò che nasce dall’incontro con l’eccesso, col disarmonico. Mentre la bellezza produce in noi una sensazione di armonia e di sereno stupore, il sublime è un sentimento paradossale, che provoca vertigine, la sensazione allo stesso tempo di miseria e grandezza, oscurità e luce.

Kant distingue due forme di sublime:

-il sublime matematico = che nasce dall’incontro con ciò che è eccessivamente grande

-il sublime dinamico = che nasce dall’incontro con la forza della natura

Il sublime matematico è dunque il trovarsi di fronte a misure che schiacciano l’uomo per il loro eccesso. Basti pensare alla sensazione che si può trovare di fronte ad esempio alla vastità delle galassie.
Il sublime dinamico è invece provocato dal nostro trovarci di fronte all’impatto con la natura nelle sue forme più violente, da un mare in tempesta a un vulcano che erutta.

In entrambi i casi la prima sensazione che l’uomo prova è il sentimento di impotenza, la comprensione della propria piccolezza rispetto all’eccessivamente grande.
Ma questa sensazione lascia poi il campo ad un’altra opposta. Nel primo caso se inizialmente ci sentiamo schiacciati da qualcosa che ci appare numericamente infinito, in seguito finiamo per provare una forma di piacere, in quanto comprendiamo che l’infinito è un’idea che appartiene all’uomo e che questa idea è superiore a qualunque realtà possibile.
Nel secondo caso, allo stesso modo, passiamo dalla sensazione di fragilità e debolezza a quella di una superiorità rispetto alla natura, ad una sensazione di potenza: mentre la natura è legata alla sua dimensione materiale, l’uomo ha una dimensione spirituale, quella legge morale che Kant descrive nella Critica della ragion pratica che rende l’uomo libero interiormente. La morale dunque libera l’uomo dai suoi confini e limiti materiali, cosa che alla natura non è permesso.

Il sentimento del sublime è dunque questo: il passaggio dal sentimento di dispiacere e impotenza alla sensazione del piacere e della potenza.
E, di nuovo, Kant continua a tracciare la sua rivoluzione filosofica copernicana: il sublime non è nella realtà fuori da noi, nella natura, ma è nell’uomo stesso  

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