Martin Heidegger: fra esistenza ed essere. Vita, opere e pensiero dell’autore di Essere e tempo.

1. La vita

Martin Heidegger nasce nel 1889 a Messkirch.
Nel 1906 si trasferisce a Friburgo, dove in seguito inizia a frequentare i corsi di filosofia e teologia nell’università locale.
Nel 1913 ottiene il dottorato, nel 1916 diventa assistente di Husserl, il padre della fenomenologia.
Grazie ad Husserl nel 1920 entra in contatto con un altro importante esponente della filosofia tedesca, Karl Jaspers.
Nel 1923 si sposta all’università di Marburgo, dove ottiene la cattedra per l’insegnamento. In questi anni stringe una relazione extraconiugale con una sua brillante studentessa: Hannah Arendt.
Nel 1927 pubblica quello che è considerato il suo capolavoro: Essere e tempo.
Nel 1928 torna a Friburgo dove ottiene la cattedra di Husserl grazie alla sua stessa intercessione, ma inizia anche la rottura culturale fra i due, dato che Heidegger è ormai sempre più estraneo alla logica della fenomenologia come pensata da Husserl.
Nel 1933 ottiene dal regime nazista il rettorato dell’università di Friburgo. L’anno successivo Heidegger abbandona il ruolo, non sentendosi valorizzato in maniera opportuna dal nuovo regime. La sostanziale adesione al nazismo, sebbene negli anni successivi non si andrà a concretizzare in atti pubblici, lo porta a rompere i legami con una serie di importanti personalità, come la stessa Hannah Arendt, e un altro importante filosofo tedesco come Karl Jaspers.
Nel 1946, con i tedeschi sconfitti, gli Alleati vietano l’attività didattica ad Heidegger, dati i suoi legami col governo nazista. Fra i responsabili del suo allontanamento vi è lo stesso Jaspers.
Nel 1947 scrive Lettera sull’umanismo, con cui prende le distanze dalla corrente filosofica dell’esistenzialismo, a cui spesso viene accostato.
Nel 1950 riprende i contatti con Hannah Arendt.
Nel 1952 torna a essere riabilitato all’insegnamento, anche grazie all’intercessione di Karl Jaspers.
Nel 1955 lascia l’insegnamento e si ritira nella sua baita nella Foresta Nera e avvia un’intensa opera di scrittura e riflessione filosofica.
La sua vita si conclude nel 1976 a Friburgo.
Dopo la sua morte vengono pubblicate molte opere rimaste inedite, ed anche i suoi diari, noti come Quaderni neri, che ripropongono postuma la questione della sua adesione al nazismo.

2. Introduzione

La ricerca filosofica di Heidegger ruota intorno ad una domanda centrale: che cosa è l’essere?
La sua si presenta dunque come una ricerca ontologica, ovvero come studio dell’essere.
Questo approccio è tipico della filosofia greca, basti pensare a figure come Parmenide – a cui si deve la celebre affermazione che l’essere è e non può non essere – oppure a Platone – che individua l’essere nelle Idee – o ancora Aristotele, che studia l’essere nelle sue diverse manifestazioni e lo descrive come logos.
Gli esempi potrebbero continuare, ma la cosa che preme Heidegger, e su cui quindi ci soffermiamo, è che questa ricerca sostanzialmente nel corso della storia della filosofia viene abbandonata, perché la risposta sembra in qualche misura acquisita.
E qui, secondo Heidegger, vi è il grande errore della filosofia, ovvero aver rinunciato a continuare a porsi questa domanda.
La questione dell’essere, secondo il filosofo tedesco, è infatti irrisolta, perché – dice Heidegger – la filosofia ha pensato l’essere sostanzialmente nei termini del presente, rinunciando ad analizzare le sue diverse manifestazioni temporali.
Noi infatti abbiamo un rapporto con l’essere che è nella dimensione del presente, mentre sia il passato che il futuro diventano dimensioni che in qualche misura sembrano sfuggire all’essere. Perché ciò che è stato non è più, quindi non è l’essere, e ciò che sarà ancora non è, e quindi di nuovo non è l’essere.
Questa riflessione può a prima vista apparire molto astratta e soprattutto poco rilevante ma, come Heidegger cercherà di dimostrare nel corso della sua vita, ha invece ricadute molto profonde nel nostro modo di pensare il mondo.

3. Essere e tempo

La prima grande opera di Heidegger è Essere e tempo del 1927. In questa opera la grande domanda che aleggia è appunto: che cosa è l’essere? Ma l’opera inizia – e poi si conclude – non indagando l’essere, ma l’uomo.
Heidegger intuisce infatti due aspetti:
1. Che se c’è una domanda, occorre innanzitutto comprendere chi è che si pone la domanda
2. Che l’uomo è l’unico ente che si pone la domanda sull’essere e, in partenza, ha già una vaga idea di cosa l’essere sia
In questo senso Essere e tempo nasce per essere una ricerca ontologica ma finisce per essere un’opera esistenzialista, nel senso che descrive quali sono i caratteri fondamentali dell’esistenza umana.

IL DASEIN E L’ANALITICA ESISTENZIALE

1) Nella sua analitica esistenziale, che rappresenta la prima parte dell’opera e che descrive quali sono appunti i caratteri peculiari dell’essere uomo, Heidegger descrive l’essere umano come Dasein, in italiano esser-ci.
Questo significa che il primo, essenziale carattere dell’uomo, è che ciascuno di noi è innanzitutto un essere esistente e questa esistenza si manifesta necessariamente dentro a un certo tempo e dentro a un certo spazio.

2) Il Dasein, in secondo luogo, è descritto come un essere progettante. La peculiarità dell’esistenza è infatti che essa è un campo aperto di possibilità, che permette all’esser-ci di progettare lo svolgimento delle sue azioni presenti e future.

3) Come essere progettante, il Dasein è poi un essere-nel-mondo: l’uomo è infatti circondato costantemente da cose, è immerso in una totalità di enti, non è mai isolato e a sé stante. Queste cose di per sé, dice Heidegger, sono delle semplici presenze. Ovvero sono lì, come puro corpo, pura materia, e non esprimono alcun significato. L’esser-ci trasforma le semplici presenze in strumenti adatti ai suoi progetti, in quanto attribuisce un significato alle cose piegandole ai propri scopi.

4) Entrando in rapporto con le cose e trasformandole in strumenti, l’uomo entra nella dimensione della cura, ovvero si prende cura del mondo intorno a sé. Attenzione: Heidegger non usa questo termine con un’accezione morale. Il prendersi cura non è inteso né in senso negativo né positivo: vuol dire semplicemente che l’esser-ci manipola, trasforma, utilizza in maniera pratica gli enti del mondo.

5) Sempre rispetto al sul nostro essere-nel-mondo e sul prenderci cura degli strumenti, Heidegger svolge una riflessione molto importante sul tema della comprensione del mondo che ci circonda. La prima cosa che dice Heidegger è che i vari enti sono sempre in un rapporto di rimando fra di loro. Questo vuol dire che il loro significato si configura in relazione agli enti che lo circondano (es. una lavagna assume un certo significato se è posta vicino ad una cattedra, perché la presenza della cattedra rimanda all’idea che ci troviamo in un’aula).
Collegato a questo tema del rimando vi è poi quello fondamentale della precomprensione. Questo significa che quando siamo in un atteggiamento di comprensione del mondo, questa comprensione non arriva mai dal nulla, ma parte sempre da una rete di significati già presenti in noi. Quei significati derivano dalla rete di rimandi che abbiamo descritto (e che Heidegger chiama anche visione ambientale preveggente, nel senso che l’ambiente condiziona la nostra comprensione delle cose), ma anche da rimandi più generali, come la nostra storia personale, la nostra cultura, e via dicendo. Di tutti questi strumenti di pre-comprensione il più importante è il linguaggio, in quanto è strumento di comunicazione di base con cui pensiamo e diciamo il mondo.

6) Il tema della precomprensione ci porta alla questione del circolo ermeneutico. Da quello che abbiamo visto, conoscere il mondo non significa conoscerlo ex novo, ma interpretare. Questo significa che per una comprensione più adeguata dobbiamo scavare nell’interpretazione del mondo, e ogni passaggio di questa interpretazione arricchisce ulteriormente la comprensione. Si innesca quindi una circolarità di significati, un circolo ermeneutico appunto. Usando un’immagine metaforica, potremmo dire che la comprensione non è tanto un andare avanti, ma un andare indietro, ovvero ripercorrere la catena di significati che è alle spalle di una situazione attuale.

7) In questa nostra comprensione ermeneutica del mondo, sottolinea poi Heidegger, c’è un altro elemento che entra in gioco: la situazione emotiva. Ovvero: ogni volta che stiamo interpretando il mondo lo stiamo facendo alla luce di un certo stato d’animo. Secondo Heidegger esiste uno stato d’animo originario, che appartiene all’esser-ci. Questo stato è l’angoscia. Questo sentimento è legato al fatto che noi avvertiamo di essere-gettati-nel-mondo. Ovvero: veniamo dal nulla e ci troviamo presenti nel mondo, senza un senso, senza un motivo, abbandonati a noi stessi.

8) Il nostro essere-gettati-nel-mondo non ci lascia in una situazione di isolamento ma, per usare un’altra immagine del linguaggio heideggeriano, in un nostro essere-con-gli-altri. Questo significa che, venendo fuori dalla nostra situazione originaria di gettatezza, impariamo a vivere e lo facciamo osservando e imitando gli altri. Stiamo, dice Heidegger, nella dimensione del “si”: nel senso che facciamo quello che comunemente si fa, diciamo quello che abitualmente si dice, e via dicendo.

9) Andando a chiudere la sua analitica esistenziale, per riassumere i tratti peculiari dell’esser-ci, Heidegger usa l’immagine della cura. Per cura (e non prenderci cura delle cose, come abbiamo detto prima), Heidegger intende la dimensione fondamentale nel nostro essere in rapporto con il mondo, quella dimensione che riassume in sé il modo in cui ci poniamo verso l’esterno. La cura è infatti il nostro essere in una situazione emotiva, nel nostro prenderci cura delle cose in quanto esseri-nel-mondo, il nostro produrre dei progetti, il tutto tenendo alla base il sentimento del nostro essere-gettati-nel mondo. Andando ad analizzare meglio questo concetto, vediamo poi come la cura ci pone in rapporto con la temporalità: l’essere-gettati rimanda infatti alla nostra dimensione del passato; il nostro prenderci cura delle cose ci rimanda alla nostra dimensione del presente; il nostro produrre progetti ci rimanda alla nostra dimensione del futuro.

ESSERCI E TEMPO

  1. Con la dimensione della cura si entra nella seconda sezione di Essere e tempo, in cui Heidegger analizza come l’esser-ci si pone in relazione alla dimensione temporale.
    Qui entra in gioco il tema della differenza fra vita autentica e vita inautentica.
    Con l’aggettivo autentico, Heidegger vuole intendere l’appartenere. Detto in altri termini: la vita autentica nasce da progetti che ci appartengono, che sono propriamente nostri; viceversa, la vita inautentica è legata ad una dimensione in cui non sviluppiamo progetti che sentiamo come nostri.
  2. Per comprendere questa distinzione dobbiamo tornare al concetto di mondo del si. Questa dimensione è quella da cui tutti, necessariamente, passiamo. Il problema è che rischiamo di rimanerci incastrati e vivere nelle tre trappole che il mondo del si ci pone: la chiacchiera, ovvero limitarci a pensare e dire le cose che generalmente si pensano e si dicono, reputandole vere in quanto di senso comune; la curiosità, ovvero l’interessarci della vita altrui rimanendo nella superficie dell’apparenza visibile; l’equivoco, ovvero pensare che quello che emerge dalla chiacchiera e dalla curiosità rappresenti realmente la verità.
  3. Rimanendo dentro a questa dimensione entriamo nella vita inautentica, in quanto rinunciamo a scavare la verità e finiamo per vivere una vita che non ci appartiene, una vita di conformismo. Subiamo un processo di deiezione, ovvero diventiamo una cosa fra le cose, una semplice presenza. Rinunciamo alla nostra esistenza, ovvero a produrre progetti che ci appartengono.
  4. L’alternativa alla vita inautentica nasce se ci poniamo come esseri-per-la-morte. Ovvero: prendiamo coscienza della dimensione più profonda della morte. La morte è la possibilità più paradossale, in quanto il suo giungere pone fine a tutte le altre possibilità esistenziali. Questo significa anche che la morte è l’unica possibilità necessaria, che cancella l’esistenza. Eppure, l’orizzonte della morte può essere decisivo per costruire una vita autentica: se accettiamo la necessità della morte, e quindi la necessità del nulla, accettiamo la nostra esistenza per quello che è. Invece di fuggire la morte non pensandoci, la trasformiamo in decisione anticipatrice. Questo significa che possiamo riempire il tempo di significato, possiamo trasformare il tempo in istante, per usare un’immagine di Nietsche, ovvero in un attimo denso di significato. Attraverso questa operazione recuperiamo appieno il nostro rapporto col tempo: la deiezione della vita inautentica ci spinge in una sorta di eterno presente, la decisione anticipatrice fa calare nel presente dei nostri progetti lo sguardo sul futuro.

4. La “svolta”

Descrivendo l’esser-ci come temporalità, Essere e Tempo si chiude e rappresenta dunque un’opera incompiuta. Analizzato l’esser-ci Heidegger avrebbe dovuto finalmente rispondere alla domanda iniziale: cos’è l’essere? Ma arrivato a questo punto della stesura Heidegger comprende che gli manca qualcosa per rispondere a questa domanda: un linguaggio adeguato. Il linguaggio che possiede gli deriva infatti da una storia della filosofia che ha mancato di rispondere a questa domanda. Quindi, prima di rispondere, occorre innanzitutto riformulare i termini stessi della filosofia per trovare un nuovo linguaggio. Occorre quindi aprire una nuova ricerca, che Heidegger definisce Kehre (svolta). Gli studiosi di Heidegger si sono divisi su questo punto: da un lato alcuni hanno interpretato la svolta come una vera e propria rottura nel percorso del filosofo, tanto da poter distinguere fra un primo Heidegger esistenzialista e un secondo Heidegger che abbandona questo percorso; altri, viceversa, hanno negato che ci sia una vera svolta, in quanto il tema di fondo dell’intera produzione di Heidegger è sempre quello ontologico. Oggi si tende a interpretare il senso della svolta con un’accezione intermedia: Essere e tempo ha infatti un approccio esistenzialista che poi Heidegger abbandona, ma in ogni caso l’attenzione di fondo è sempre quella rivolta al problema dell’essere, sia in quest’opera che nel corso del resto della sua vita.

5. La metafisica

Per pensare il problema dell’essere e quindi il linguaggio che è dietro alla riflessione filosofica, Heidegger individua innanzitutto la necessità di ripensare la storia della filosofia e in particolare il suo approccio metafisico.
Alle origini del problema metafisico vi è il tema che abbiamo posto all’inizio, ovvero quello di pensare l’essere in termini di presente. L’uomo infatti ha il problema del doversi rapportare col nulla: di fronte all’angoscia che scaturisce dal nulla, occorre dare un fondamento alle cose che esistono, qui ed ora. In altri termini, la filosofia ha sempre provato a salvare, a giustificare l’esistente dall’inghiottimento nel nulla.
La conseguenza di questo approccio è che la filosofia è diventata appunto metafisica, ovvero un pensare ad un piano oltre la natura che sia fondamento della natura. Questo piano, proprio per non affrontare il problema del tempo, che rischia di gettarci nell’angoscia nel nulla, pensare l’essere come una sorta di super-ente eterno che crea gli enti del mondo. Possiamo pensare ad esempio a Platone, che fa coincidere l’essere con il mondo eterno delle idee, o ancora più banalmente alla metafisica religiosa che pensa un dio eterno e assoluto che genera le cose.

In questa strada intrapresa dalla filosofia vi è però secondo Heidegger il problema fondamentale, quello della cosiddetta differenza fra verità ontologica e verità ontica. Per spiegare questo concetto facciamo un esempio molto banale.
Se noi diciamo la frase il cielo è blu, l’essere – in questo caso l’essere blu – non è l’ente (ovvero il cielo), ma un qualcosa che si manifesta nell’ente. C’è quindi una distinzione fra l’essere – dunque la verità ontologica – e l’ente – ovvero la verità ontica.
Il problema, per Heidegger, è che la storia della metafisica ha confuso i due piani, mischiandoli. Ovvero, ha messo insieme essere ed ente. Per questo le forme che assume l’essere (le idee platoniche o il dio cristiano, ecc…) alla fine prendono la forma di enti, per quanto perfetti ed eterni siano.

Porsi il problema dell’essere vuol dire dunque operare una scissione fra essere ed ente. Se l’essere non è un ente, a questo punto, vuol dire che è niente. In pratica: la storia della filosofia ha sempre separato l’essere dal nulla, ma invece l’essere va pensato proprio in rapporto al nulla. “Il niente e l’essere sono la stessa cosa” dice Heidegger.
A questo punto è evidente che entriamo in un campo molto complesso, perché vuol dire pensare qualcosa che la filosofia si è sempre rifiutata di pensare.
Lo stesso Heidegger è molto consapevole di questa difficoltà e lui per primo sa di non poter dare una definizione precisa ed esatta dell’essere in questi termini.
Per questo finisce per utilizzare delle immagini, delle metafore. In primo luogo l’immagine dell’Ereignis, ovvero dell’evento. Questo non significa che l’essere è un evento (proprio perché l’essere non è una cosa): significa che l’essere si manifesta negli enti. E il manifestarsi non è un eterno, ma è una dimensione temporale, per cui l’essere, l’Ereignis, è in rapporto innanzitutto col tempo.
Il manifestarsi però non è completo, d’altronde altrimenti ne avremmo una accezione piena e compiuta: Heidegger dice che proprio in quanto evento, l’essere si manifesta e si nasconde al tempo stesso. L’essere si manifesta tramite gli eventi e quindi si rivela, ma allo stesso tempo, essendo l’ente l’opposto del non-ente, ovvero dell’essere, finisce per cancellare l’essere stesso.
Un’altra immagine che Heidegger utilizza è quella della radura. La radura è ciò che rende le cose visibili, separandole da quelle invisibili intorno. Di nuovo, quindi, ritorna l’idea che l’essere si dà agli enti e allo stesso tempo però si nasconde.

Tutti questi temi sono evidentemente complessi, ma sullo sfondo il discorso di Heidegger può essere compreso nella sua novità radicale: l’essere non va pensato come ciò che è eterno, non è ciò che ci permette di dare un fondamento e di spiegare il mondo, ma è uno sfondo oscuro che lascia accadere gli eventi. L’essere, appunto, di per sé è niente: quello che cogliamo è il suo accadere.

6. La tecnica

Il discorso sulla metafisica, dai caratteri apparentemente astratti, porta Heidegger ad affrontare un tema invece centrale della civiltà contemporanea: la questione della tecnica.
Con la metafisica abbiamo visto che il tema principale è stato quello di assicurare un fondamento all’esistenza delle cose. Ma dentro questo processo se ne apre subito un altro: ovvero quello dell’appropriazione delle cose da parte dell’uomo.
La metafisica finisce per slittare, gradualmente, verso il pensare la natura come un dominio esclusivo dell’uomo.
Questa rottura inizia col cristianesimo, in cui Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza e lo pone al centro dell’universo. Poi con l’età moderna questa centralizzazione dell’uomo prosegue: dalla cultura umanista-rinascimentale si giunge infatti a Cartesio, in cui è l’io, come sostanza a dare fondamento al mondo. Nasce nell’età moderna il metodo scientifico, che è alla base dell’idea che il mondo sia composto da enti oggettivi e manipolabili.
Con il razionalismo dell’approccio scientifico si giunge da un lato al pensiero di Leibniz, che pensa dio come pura razionalità e in pratica la ragione umana si fa divina; dall’altro si arriva a Kant, in cui l’Io è il fondamento di ciò che è conoscibile.
Seguendo lungo questa strada filosofica, si passa poi per Hegel, in cui l’Io si fa assoluto sotto forma di spirito e si giunge a Nietzsche. Secondo Heidegger, Nietzsche ha il merito di pensare la fine della metafisica, ma finisce egli stesso per fare metafisica elevando l’uomo a superuomo, rendendo la volontà di potenza il più estremo tentativo di pensare l’uomo come dominatore delle cose.

Dentro a questo processo l’uomo ha mutato il suo rapporto con la tecnica. Cerchiamo di capire in che senso.
Per tecnica intendiamo la possibilità dell’uomo di disporre della natura, svelando qualcosa che prima non c’era. Se stiamo dentro al discorso che abbiamo visto prima, capiamo dunque che la tecnica è dunque manifestazione dell’essere.
Dentro al percorso del pensiero metafisico si apre un ripensamento della tecnica: per gli antichi la tecnica è qualcosa che asseconda la natura (ad esempio la natura produce il flusso dell’acqua e l’uomo lo usa con il mulino), per i moderni la tecnica è usare la natura come un fondo a propria disposizione. Con la tecnica moderna non abbiamo più bisogno che la natura produca, perché abbiamo già immagazzinato le sue energie per poterle usare a nostro piacimento.
Per parlare della tecnica in senso moderno, Heidegger usa il termine Gestell, che nella sua accezione significa: totalità del percorso tecnico. Detto in termini semplici: l’uomo moderno pensa la tecnica come strumento per disporre pienamente della natura, per assecondare dunque la sua volontà di potenza.
Ma questa concezione in realtà è frutto di quell’oblio dell’essere, di quella dimenticanza della riflessione ontologica su cui Heidegger insiste dall’inizio. La tecnica, essendo manifestazione dell’essere, non è nelle mani dell’uomo.
Tutto questo discorso non porta Heidegger a condannare necessariamente la tecnica, ma a porre l’accento sui rischi e opportunità. Da un lato vi è il rischio del pensare la tecnica come strumento, ma in realtà essere uno strumento della tecnica, con tutti i pericoli che ne derivano. Dall’altro, la tecnica come occasione di svelamento, apre possibilità tutte nuove, che però devono essere accompagnate da una opportuna riflessione sull’essere.

7. Il linguaggio

Per chiudere il discorso su Heidegger andiamo ad analizzare un tema che il filosofo approfondisce in maniera particolare nella sua cosiddetta seconda fase, ovvero quello relativo al linguaggio. Questo tema era già presente in Essere e tempo, come abbiamo visto, ma diventa sempre più rilevante con l’andare avanti del pensiero di Heidegger.
Come abbiamo detto, il linguaggio è lo strumento principale di comprensione del mondo, ma con il procedere della sua riflessione, Heidegger giunge alla conclusione che il linguaggio è la vera e propria casa dell’essere, ovvero il luogo attraverso cui l’essere si manifesta.
Questo discorso si collega a quanto già abbiamo detto: l’essere non si manifesta in via definitiva, ma si mostra e allo stesso tempo si nasconde; allo stesso modo, quando con il linguaggio nominiamo le cose, le parole assumono in realtà significati diversi, che si sovrappongono fra di loro.
Ma oltre a questo parallelismo fra essere e linguaggio, Heidegger aggiunge un ulteriore elemento: il linguaggio è come se fosse prima di noi. Noi parliamo qualcosa che abbiamo già sentito dire, prima di dire dunque ascoltiamo: questo significa che noi pensiamo di usare il linguaggio, ma in realtà è il linguaggio ad usare noi per manifestarsi. Questo vuol dire, infine, che il linguaggio rimanda ad un fondo originario, ci rimanda a quel nostro essere gettati nel mondo dal nulla originario.

Per tutte queste riflessioni, Heidegger giunge alla conclusione che non solo il linguaggio è manifestazione dell’essere, ma che in particolare lo è la poesia, che è un riformulare, uno sviscerare il linguaggio, un farne emergere le possibili potenzialità. Questo significa che l’arte è in un rapporto privilegiato con l’essere, è suo disvelamento.
Nell’ultimo Heidegger quindi vediamo in qualche misura eclissarsi il ruolo della filosofia come fonte di riflessione sull’essere, a vantaggio dell’arte

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