Proponiamo alcuni estratti relativi alla storiografia e alle fonti dirette sul periodo della Restaurazione

LA STORIOGRAFIA

N. MATTEUCCI, “DAL COSTITUZIONALISMO AL LIBERALISMO”

Il liberalismo dell’età della Restaurazione è un nuovo clima spirituale; un “clima spirituale” proprio perché il liberalismo, che nasce d’improvviso e in modo così misterioso, una parola in cui tanti delle diverse nazioni si riconoscono e che molti vogliono far propria, non è un’ideologia o un principio chiaro dai confini ben stabiliti: in pochi (Kant e Humboldt, Constant e Tocqueville, John Stuart Mill5) è una teoria della politica e dello Stato, in molti è una critica (liberale) della politica e dello Stato, che condanna la violenza e la mancanza della libertà. Per definire il liberalismo, si può solo ripetere con il Constant: «libertà in tutto, in religione, in filosofia, in letteratura, in industria, in politica», aggiungendo a questa libertà per il trionfo dell’individualità un’altra per il trionfo di una diversa individualità, quella della nazione. La libertà è, per Constant come per Humboldt, la vittoria della diversità sull’uniformità, delle varie individualità e delle loro possibilità di esprimersi contro le astratte idee di eguaglianza, portate avanti dall’assolutismo, dal giacobinismo e dal sistema napoleonico. Si parla, così, di un’età liberale, non solo perché in questo periodo si prende coscienza che la libertà è il valore supremo della vita individuale e sociale, ma anche perché la libertà è la categoria generatrice ed esplicativa di tutta una serie di comportamenti politici e sociali fra loro intimamente legati. L’individualità, sia quella del singolo individuo, sia quella della nazione, ha diritto alla libera espressione, in vista di una maggiore elevazione morale degli uomini come dei popoli. Dalla libertà così intesa derivano in ogni settore conseguenze che mutano rapidamente il volto dell’Europa: nella vita economica la rottura dei vincoli corporativi e dei privilegi feudali consente il decollo economico, a cui si accompagna un fenomeno nuovo: quello dell’associazionismo (sia per il progresso economico, sia per il mutuo soccorso); nel campo politico la formazione di un’opinione pubblica informata che, attraverso un libero dibattito, controlla il governo; in ogni campo della vita sociale, politica e culturale, la lotta contro l’oppressione clericale, per l’abolizione della manomorta, e del foro ecclesiastico, per la laicità dello Stato e dell’insegnamento; e, infine, la lotta contro le monarchie assolute, per ottenere costituzioni, istituzioni rappresentative, la responsabilità del governo, insomma nuove istituzioni, che talvolta sono un compromesso fra assolutismo e rivoluzione, monarchia e sovranità popolare. Un compromesso che, sotto la pressione delle forze democratiche, va a tutto svantaggio della monarchia, anche se del vecchio Stato assoluto sopravvivono i grandi corpi, quali la burocrazia e l’esercito permanente. Lo stesso dicasi per la nazione: il principio liberale di nazionalità voleva insieme l’unità della nazione, quando essa era divisa in Stati diversi, la sua indipendenza, se era assoggettata al dominio di uno Stato straniero, la sua libertà, e cioè quelle strutture istituzionali che le consentissero di esprimere e di esercitare così, nel concerto europeo, la sua particolare missione. Lo Stato nazionale, capace di dare espressione politica allo spirito della nazione, resta l’espressione sintetica dell’età liberale. È una fiducia e una speranza, un pathos, che si adatta con posizioni politiche assai diverse, per cui talvolta abbiamo i “liberali” non il “liberalismo”: abbiamo, così, i monarchici liberali, che, pur nella ferma difesa del principio monarchico, ammettevano forme ristrette di rappresentanza politica e accettavano solo la monarchia costituzionale e dualista; e i liberali radicali che, contro una visione restrittiva del liberalismo in termini di mera garanzia dei diritti individuali, sottolineavano il momento della partecipazione più larga dei cittadini alla direzione politica del Paese; e i liberali nazionali che, nel far coincidere la causa nazionale con quella liberale, spesso subordinavano la libertà all’unità nazionale, come in Germania. Un’altra difficoltà per cogliere in modo unitario il liberalismo europeo consiste nel fatto che questo stato d’animo, questo clima d’opinione, nonostante la circolazione delle idee, si adatta e si combina con tradizioni culturali assai diverse, nelle quali esso porta uno spirito innovatore e vivificatore, per cui, volendo dare una definizione storica individualizzante, dovremmo seguire i liberalismi delle diverse nazioni, perché dietro il pathos liberale ci sono concetti diversi. Anche su un piano più alto, quello della filosofia della pratica, il liberalismo ci appare sostanzialmente diviso fra un liberalismo etico, dominante soprattutto in Europa, e un liberalismo utilitaristico, dominante soprattutto in Inghilterra. […] Per il liberalismo utilitaristico il desiderio del proprio piacere è il solo movente dell’individuo: la fiducia nella possibilità dell’armonia degli interessi privati egoistici o della coincidenza dell’utilità privata con quella pubblica, senza dover ricorrere a un’estrinseca autorità coercitiva, fu possibile con l’estensione analogica alla politica dei concetti formulati per l’economia dai liberisti Adam Smith e Ricardo, e cioè quelli di mercato e di utilità. Strutture politiche che avessero massimizzato il mercato politico, estendendo il calcolo utilitario al maggior numero di persone, e resi i governanti dipendenti dalle leggi del mercato attraverso frequenti elezioni, avrebbero consentito la massima felicità del maggior numero di persone. L’utilitarismo dissolve totalmente l’etica, nella misura in cui prende in considerazione solo gli effetti di un’azione, non i motivi. Tuttavia il liberalismo utilitaristico è stato sopravvalutato per l’indubbio peso che ha avuto nel radicalismo inglese, nel movimento per le riforme giuridiche, economiche ed elettorali dei primi decenni del secolo; ma si tratta di una parentesi, dato che già con John Stuart Mill si riafferma il liberalismo etico, che contraddistinguerà tutto il successivo liberalismo inglese. Per il liberalismo etico non si tratta di negare una sfera di arbitrio (o del piacere) per i singoli, ma di farla coesistere con quelle degli altri, in base a un principio di eguaglianza, che dapprima è giuridica (Kant), poi tende ad essere anche di fatto (Mill, Tocqueville): come affermò Kant, ciascuno dev’essere messo nella condizione di ricercare la felicità a suo piacimento, senza che nessuno glielo imponga. Per il liberalismo etico si tratta soprattutto di vedere nella libertà la condizione esterna per l’auto-realizzazione o l’emancipazione dell’uomo, che ha nell’impegno politico, civile e morale la sua massima espressione. Al liberalismo etico, per seguire von Humboldt, non interessano tanto i risultati, cari agli utilitaristi, ma le grandi forze morali che li producono, la lotta o l’azione per il raggiungimento della libertà

R. MAGRAW, “IL SECOLO BORGHESE IN FRANCIA”

Le folle operaie del febbraio imposero la repubblica e costrinsero il governo provvisorio a includere tra i propri membri anche lo scrittore socialista Louis Blanc. […] In alcune settimane l’incertezza politica creata dalla rivoluzione compromise la già fragile fiducia degli uomini d’affari, e con il crollo della debole ripresa economica la disoccupazione a Parigi salì rapidamente al 60 per cento della forza lavoro, che contava 340.000 elementi. Di fronte alle richieste che venisse creato un ministero del lavoro e che si organizzassero sussidi statali per le cooperative, i moderati del governo si sentirono costretti a dare un’impressione di attività. Crearono gli ateliers nationaux, che in pratica erano poco diversi dalle officine istituite per beneficienza per aiutare i senza lavoro nel 1830-1831. […] Il ministro degli Interni Marie sperava di utilizzarli per organizzare e controllare gli operai. […] Ma presto gli artigiani si risentirono di essere stati destinati a lavori umili, non qualificati e di fatica, per meno di metà della loro paga abituale […]. Invece del ministero del Lavoro agli operai venne offerto un palliativo, la Commissione del Lussemburgo, nella quale i delegati dei mestieri parigini avrebbero discusso dei problemi industriali. Marx1 affermava che mancando di un bilancio e di ogni vero potere questa iniziativa non poteva che finire in discorsi impotenti. Tuttavia servì da perno dell’organizzazione operaia, spingendo a un’unità tra i lavoratori che trascendesse le divisioni di mestiere. Il «Journal des Travailleurs» di Vinçard sosteneva che il diritto al lavoro non si identificava con l’occupazione provvisoria negli ateliers nationaux, ma con il diritto di ricevere i frutti del proprio lavoro esercitando la propria professione, perché solo così era garantita la dignità. La commissione divenne anche il nucleo degli esperimenti di cooperative di produzione, che interessarono 50.000 lavoratori di Parigi. […] Scettici verso Blanc, che insisteva paternalisticamente che dovevano fidarsi della bontà di una repubblica benevola, i lavoratori arrivarono a sostenere l’autoemancipazione. I padroncini2 e gli operai di bottega portarono alla Commissione del Lussemburgo i problemi riguardanti l’apprendistato e lo sfruttamento, e conquistarono una considerevole presenza dei lavoratori ai conseils des prud’hommes. […] L’attenzione era in gran parte concentrata sulle elezioni di aprile, in occasione delle quali si vide che l’apparato per la mobilitazione di massa più efficace era il movimento dei club parigini. […] Gli obiettivi dei club erano pragmatici: fornire a un pubblico di massa un corso accelerato di politica. […] L’affluenza parigina del 75 per cento alle elezioni dimostra che i club riuscirono a fare iscrivere gli elettori. Riuscirono a diffondere slogan, a inculcare la distinzione tra una repubblica puramente formale e una repubblica “sociale”. […] Ma avevano gravi difetti. Erano organismi goffi, non potevano fare la parte del partito rivoluzionario. I loro dibattiti e le loro risoluzioni, le liste elettorali e le manifestazioni, non riuscivano a trasformarsi in strategia politica. […] I loro legami con le cooperative di mestiere erano deboli. Presentarono troppi candidati oscuri, ed erano divisi dalle rivalità personali tra Blanqui e l’altro leader socialista di club, Barbès, aggravate da falsi documenti del governo secondo i quali Blanqui aveva fatto la spia per la polizia. La sconfitta elettorale bloccò lo slancio del movimento operaio. A Parigi i socialisti conquistarono solo 6 seggi su 34. […] Con lo scemare delle speranze i lavoratori divennero cupi e torvi. Nel mese successivo all’elezione i club parigini persero i due terzi degli aderenti. Il 16 maggio alcuni reparti borghesi della Guardia nazionale repressero un corteo pacifico male organizzato, che aveva occupato l’Assemblea a sostegno della causa polacca. Il governo, sostenendo che si era trattato di un tentativo di colpo di Stato, confiscò gli archivi dei club, licenziò il capo radicale della polizia, Caussidière, e arrestò Blanqui, privando la sinistra di una potenziale guida nello scontro imminente. […] Ormai le élite volevano arrivare alla resa dei conti. Tocqueville disse che non aveva mai nutrito speranze su un accordo pacifico. Il pericolo socialista poteva soltanto essere «fermato tutto in una volta, con una grande battaglia». Dalle sue memorie si ricava un quadro molto chiaro dei pregiudizi di classe di un “liberale” francese. Il socialismo non deriva dal bisogno, ma dall’avidità, perché, a suo dire, le condizioni dei lavoratori stanno migliorando. […] I conservatori, infuriati dall’immagine degli “scrocconi” fermi a far niente agli angoli delle strade, intenti a discutere di socialismo a spese dei contribuenti, desideravano come Tocqueville uno scontro decisivo. Si spostarono reparti militari verso Parigi, al comando del generale Cavaignac, repubblicano, ma abbrutito da una guerra coloniale in Algeria […]. Le vittorie ottenute dai socialisti il 4 giugno a Parigi, a un’elezione supplettiva, sembrarono dimostrare che la città si stava effettivamente spostando a sinistra. Il 22 giugno gli ateliers vennero chiusi; le truppe di Cavaignac aspettarono mentre si costruivano le barricate e intervennero soltanto dopo. Cinquantamila lavoratori presero le armi, millecinquecento circa furono uccisi, quasi dodicimila furono arrestati. Anche se la rivolta non ebbe formalmente dei capi, l’80 per cento degli arrestati proveniva dai club, dalla Guardia nazionale o dagli ateliers, che costituirono un libero punto di riferimento organizzativo per gli insorti. In sostanza è chiaro che quando Marx e Tocqueville affermano che si trattò di una “guerra di classe” hanno ragione. La posta in gioco era evidente. Molti padroncini lottarono insieme ai loro operai, per odio dei mercanti capitalisti che controllavano gli sbocchi del mercato e acceleravano il processo di divisione del lavoro. […] Gli edili e i metallurgici furono i più numerosi fra gli arrestati […]. Anche se Baudelaire lottò con gli insorti, i giovani intellettuali e gli studenti confusi e idealisti che in primavera erano stati liberali, in giugno divennero, come osserva Flaubert, i paladini pessimisti e delusi dell’“ordine”. Flaubert riporta la brutalità delle ritorsioni contro i prigionieri, comprese esecuzioni sommarie. La proprietà era stata elevata a religione: i socialisti erano atei, cannibali; il massacro era una guerra santa per la civiltà.

A. OMODEO, “LA CULTURA FRANCESE NELL’ETA’ DELLA RESTAURAZIONE”

La Restaurazione è un periodo poco amato dai Francesi: specialmente dopo il mito romantico di Napoleone, essa appare un’età di decadenza della France; e quasi inevitabilmente nell’idea di Restaurazione si dà la preponderanza al momento reazionario sui motivi di ripresa, revisione e completamento della civiltà moderna scaturita dalla Rivoluzione, e sullo sforzo positivo ad affermare questa civiltà, anche rendendo giustizia a talune istanze della reazione.

[…] Dalla Francia si partì un moto d’idee che fruttificò in ogni parte d’Europa, e fruttificò senza grandi nessi con le mire politiche della nazione. La grande trasformazione per cui l’uomo colto dell’Ottocento si diversifica profondamente dal filosofo del secolo XVIII, per sensibilità morale, per interessi mentali, per vocazione d’attività, per quella che è la nuova grande fede degli uomini d’Europa, il progresso, per la capacità d’intendere storicamente la realtà in forme ben lontane dagli schemi geometrici dell’intellettualismo precedente, e di dare sviluppo a questa visione del mondo in una nuova enciclopedia delle scienze e in un nuovo ritmo politico, tutto ciò fu opera, fra il 1814 e il 1830, della cultura di Francia, mentre gli altri paesi del continente riposavano nella pace, molto simile ad un incubo, della Santa Alleanza. Effettivamente lo spirito moderno in quel sedicennio visse una vita intensissima sulle rive della Senna.

[…] Ma questo svolgimento non era destinato a restar patrimonio esclusivo della Francia, e per molti riguardi ebbe il suo coronamento in altri paesi, secondo la misteriosa legge per cui semi diffusi dal vento trovan condizioni propizie per un rigoglio inaudito in terre lontane da quelle d’origine. […] Nell’ordine delle idee e degli ideali politici nell’età della Restaurazione maturano le intuizioni che si esprimeranno poi nelle opere del Tocqueville. Ma del Tocqueville stesso noi non intenderemo l’importanza se non lo connettiamo con gli svolgimenti che quelle idee ebbero nel Cavour e in non pochi uomini dell’Inghilterra vittoriana […]. Dell’ideale delle libere nazionalità […] noi italiani sperimentammo nel Mazzini il vigore che edificò la terza Italia, e abbiamo più adeguati elementi di giudizio.

Gli ideali di giustizia sociale che fermentano durante la Restaurazione, non solo nel sansimonismo, ma anche negli atteggiamenti reazionari e filoproletari insieme del cattolicesimo estremo, trovano l’ultimo loro sviluppo in Karl Marx che enuncia l’antitesi di un quarto stato colla borghesia. La cultura della Restaurazione e della monarchia di luglio gli aveva fornito lo schema della valutazione classistica dei fatti del materialismo storico. E si potrebbe continuare per un pezzo.

I DOCUMENTI

VON METTERNICH, “MEMORIE”

Il 3 novembre 1814 il Congresso si aprì con una semplice e modesta conferenza, che non soddisfece affatto l’opinione pubblica. I plenipotenziari dei vari Stati e Paesi mi pregarono di assumere l’alta direzione delle discussioni. Accettai l’incarico, persuaso che le questioni che il Congresso doveva risolvere non potessero essere affrontate se non a condizione di procedere con regolarità e con ordine perfetto, eliminando rigorosamente i dettagli inutili, e rendendosi perfettamente conto della situazione. Proposi un programma che doveva comprendere:

le deliberazioni fra i membri della quadruplice alleanza ed i rappresentanti francesi, riuniti sotto il nome di «Comitato delle cinque Potenze»;

la riunione più completa dei plenipotenziari di queste cinque Potenze, e della Spagna, del Portogallo e della Svezia, sotto il nome di «Assemblea delle otto Corti», ed i loro rapporti con i rappresentanti degli Stati; la formazione di una Commissione particolarmente incaricata di sistemare la situazione della Germania, Commissione che sarebbe stata composta .dei plenipotenziari degli Stati germanici.

Questo programma fu accettato: grazie ad esso, il grave compito proposto all’Assemblea poté essere portato a buon fine. La storia del Congresso si trova tutta quanta negli atti ufficiali e nei mutamenti materiali che esso decise; qui non ho nulla da aggiungere. Se il risultato ebbe la sorte di tutte le grandi cose di questo mondo, se non è sfuggito alla critica di coloro che erano prevenuti ed agli attacchi dei superficiali, basterà, per apprezzare i lavori del Congresso nel loro valore reale, dire che esso pose le basi di una pace politica che dura da trentotto anni, e che le sue decisioni più importanti non hanno soltanto sfidato le tempeste che si sono scatenate nel frattempo, ma hanno potuto anche sopravvivere ai capovolgimenti del 1848. Il 7 marzo 1815 apprendemmo che Napoleone era partito dall’isola d’Elba. Questa notizia contribuì molto a ravvivare le discussioni del Congresso, e soprattutto ad accelerare l’accordo delle corti tedesche a proposito della convenzione federale. Ecco come andò la cosa. La racconto perché non fu necessario più tempo per decidere la guerra, di quanto me ne occorra per scrivere questa pagina di storia. La prima notizia della partenza di Napoleone dall’isola d’Elba, mi arrivò così: nella notte dal 6 al 7 marzo aveva luogo presso di me una riunione di plenipotenziari delle cinque Potenze, e la conferenza si era protratta fino alle tre del mattino. Poiché i governi erano riuniti a Vienna, avevo proibito al mio cameriere di venirmi a svegliare qualora fossero arrivati dei corrieri nelle ore avanzate della notte. Malgrado quest’ordine, il domestico mi portò verso le sei del mattino un dispaccio recapitato da un corriere espresso e che recava l’indicazione urgente. Sulla busta lessi: «Da parte del Consolato I.R. a Genova». Poiché erano appena due ore che mi ero coricato, posai il dispaccio, senza aprirlo, sul tavolino da notte, e cercai di riprendere sonno. Ma una volta interrotto il riposo, non riuscii a riaddormentarmi. Verso le sette e mezzo mi decisi ad aprire il plico che conteneva soltanto queste righe: «Il commissario inglese Campbell è entrato nel porto per informarsi se Napoleone è stato visto a Genova, poiché egli è scomparso dall’isola d’Elba. Siccome la risposta è stata negativa, la fregata inglese ha subito ripreso il largo». In un batter d’occhio fui vestito, e prima delle otto ero da Sua Maestà. L’Imperatore lesse il messaggio, poi mi disse con quella perfetta calma che non lo abbandonava mai nei momenti difficili: «Sembra che Napoleone voglia lanciarsi nelle avventure. È cosa che lo riguarda. Il nostro compito è di assicurare al mondo quella pace che egli ha turbato per tanti anni. Andate immediatamente a trovare l’Imperatore di Russia e il Re di Prussia, e dite loro che io sto per dare l’ordine al mio esercito di riprendere la via della Francia. Non dubito che i due Sovrani saranno d’accordo con me». […]

Durante i negoziati che condussero alla seconda pace di Parigi, l’imperatore Alessandro mi pregò di andare da lui. Mi disse che era occupato in una grande impresa, di cui voleva discutere anzitutto con l’imperatore Francesco. «Ci sono delle questioni, — continuò lo Zar, — che tocca ai sentimenti risolvere, ed i sentimenti obbediscono all’influenza di condizioni e di situazioni tutte personali. Queste agiscono fatalmente sugli individui. Se si trattasse di un affare, vi domanderei consiglio, ma la cosa di cui parlo è di tale natura che i ministri non possono dare alcun aiuto; soltanto i Sovrani sono in grado di pronunziarsi. Dite all’imperatore Francesco che io desidero intrattenerlo sopra un argomento di cui non posso parlare ad altri; quando gli avrò parlato, egli sarà nel suo diritto, se vorrà consultarvi, mio caro principe».

Qualche giorno dopo, l’Imperatore Francesco mi fece chiamare, e mi informò che il giorno stesso, di buon’ora, aveva veduto lo Zar il quale lo aveva pregato di andare da lui, da solo, per parlargli di un argomento di grandissima importanza. «L’argomento, — aggiunse Sua Maestà, — lo apprenderete dallo scritto che egli mi ha rimesso, perché io lo esamini a fondo. Voi sapete che non amo pronunziarmi sopra un oggetto prima di averne esattamente calcolato il valore. Ho dunque accettato lo scritto autografo che lo Zar mi ha presentato, e mi sono riservato di giudicare più tardi. Leggetelo, esaminatelo, poi mi direte la vostra opinione. Quanto a me, non mi piace affatto, e le idee che vi ho trovato mi spingono piuttosto a riflessioni molto serie». Per parte mia non ebbi bisogno di un esame molto profondo per capire che lo scritto non aveva altro valore, altro senso che quello di una ispirazione filantropica celata sotto il mantello della religione. Trovai che non conteneva materia per un trattato da concludere fra i Sovrani, e che comprendeva più di una proposta che poteva essere male interpretata dal punto di vista religioso.

Così il giudizio che mi feci sul progetto di trattato fu simile a quello dell’Imperatore Francesco. Poiché lo Zar aveva avvertito l’Imperatore che egli avrebbe comunicato questo progetto anche al Re di Prussia, Sua Maestà l’Imperatore mi ordinò di andare dal Re, e di

chiedergli la sua opinione sullo scritto in questione. Il Re fu dello stesso parere dell’Imperatore Francesco; soltanto, esitava a respingere le idee dello Zar. Tuttavia c’intendemmo sull’impossibilità di redigere l’atto senza apportare al testo modifiche indispensabili. Ma anche con le modifiche il trattato non piaceva gran che all’imperatore Francesco. Dopo questi colloqui, i due Sovrani m’incaricarono di recarmi dallo Zar, come loro comune plenipotenziario. Dopo una conversazione di oltre un’ora riuscii, non senza fatica, a far mutare in parte opinione all’autore del progetto e a dimostrargli che era indispensabile cambiare parecchie frasi, e lasciarne altre da parte. Resi conto a Sua Maestà, mio augusto signore, delle obiezioni che non avevo temuto di fare allo Zar contro quest’impresa per lo meno inutile; e gli ripetei ancora la mia predizione circa l’interpretazione malevola cui il trattato non sfuggirebbe.

L’Imperatore Francesco mi approvò; tuttavia nonostante la naturale repulsione che sentiva per il progetto, sia pure ritoccato, si decise a firmarlo nella sua nuova forma, e ciò per ragioni a cui non avevo nulla da opporre da parte mia.

Ecco la storia della «Santa Alleanza» che, anche nello spirito prevenuto del suo autore, doveva essere nient’altro che una manifestazione morale, mentre agli occhi degli altri firmatari non aveva nemmeno questo significato; e per conseguenza essa non merita nessuna delle interpretazioni che lo spirito di partito le affibbiò in seguito.

La prova più inconfutabile dell’esattezza di quanto dico la si trova, a mio avviso, nel fatto che negli anni successivi tra i gabinetti non fu mai questione della «Santa Alleanza» e che mai avrebbe potuto esserci. Soltanto i partiti ostili ai Sovrani sfruttarono questo atto, e se ne servirono come di un’arma per calunniare le più pure intenzioni dei loro avversari. La «Santa Alleanza» non venne fondata per restringere i diritti dei popoli né per favorire l’assolutismo e la tirannia sotto una qualsiasi forma. Essa fu esclusivamente espressione dei sentimenti mistici dell’Imperatore Alessandro e l’applicazione dei principi del cristianesimo alla politica.

È da un miscuglio d’idee religiose e politiche che uscì la concezione della «Santa Alleanza»; […]. Nessuno meglio di me può sapere tutto quanto si riferisce a questo monumento «vacuo e sonoro».

L. BLANC, “IL PROGRAMMA DEGLI ATELIERS NATIONAUX”

Tutti gli uomini sono fratelli. Dove non c’è eguaglianza, la libertà è menzogna. La società può vivere soltanto perché svariate sono le attitudini e diverse le funzioni. Ma migliori attitudini non devono attribuire maggiori diritti. Esse impongono maggiori doveri. È questo il principio dell’eguaglianza: l’associazione ne è la forma necessaria.
Scopo finale dell’associazione è di arrivare al soddisfacimento dei bisogni intellettuali, morali e materiali
di tutti. […]
I lavoratori sono stati schiavi, sono stati servi, sono oggi salariati; si deve tendere a portarli allo stato di associati. Questo risultato non può essere raggiunto che attraverso la creazione di un potere democratico.
È un potere democratico quello che ha come principio la sovranità del popolo, come origine il suffragio universale e come finalità la realizzazione di questa formula: libertà, eguaglianza, fraternità. […]
La libertà di stampa dev’essere mantenuta e consacrata. […] L’istruzione dei cittadini dev’essere generale e gratuita. Spetta allo Stato provvedervi. Tutti i cittadini devono sottoporsi all’istruzione militare. Nessuno può esonerarsi, mediante il denaro, dall’obbligo di concorrere alla difesa del suo paese.
Spetta allo Stato prendere l’iniziativa di riforme industriali atte a sviluppare un’organizzazione del lavoro che elevi i lavoratori dalla condizione di salariati alla condizione di associati. È opportuno sostituire al Sistema del credito individuale quello del credito dello Stato. Sino a quando i proletari non si saranno
emancipati lo Stato deve farsi banchiere dei poveri.
Al lavoratore spetta la riconoscenza dello Stato allo stesso titolo del soldato. Al cittadino in buona salute, lo Stato deve il lavoro; al vecchio e all’infermo, deve aiuto e protezione

Lascia un commento