Spunti filosofici: la città

In questo percorso il tema della città è affrontato attraverso due possibili spunti molto diversi fra di loro:

  1. Il rapporto fra il filosofo e la città
  2. Il tema della città come folla

Il filosofo e la città

Dal primo tema possiamo derivare due possibili spunti alternativi fra di loro.

  1. Da un lato l’impegno del filosofo che lo conduce alla rottura con la città, e qui vedremo il caso di Socrate
  2. Dall’altro abbiamo invece l’impegno del filosofo che lo rende simbolo di una città, ed è il caso di Sartre

Socrate e Atene

Con il primo spunto, relativo al rapporto fra Socrate e Atene, emerge come il rapporto filosofia-città affondi nelle origini stesse della filosofia. Filosofare è infatti, secondo Socrate, confrontarsi con gli altri in una ricerca inesauribile della verità.

Ma quello di Socrate è un rapporto conflittuale con una parte della città ed emerge nel racconto del processo a Socrate che ce ne fa Platone nella sua Apologia.

L’uomo è per Socrate un animale sociale, ma la virtù si realizza solo tramite la conoscenza. Da qui il suo impegno, concreto, nella città, per scuotere i cittadini dalle false conoscenze, impegno che però gli procura un vasto fronte di nemici e le accuse di corruzione delle coscienze.

Tema fondamentale nell’Apologia è la impossibilità del filosofo di rifuggire dal suo impegno nella città: Socrate, accusato, avrebbe potuto andare in esilio, ma questo avrebbe significato rinunciare al suo compito in città, quindi Socrate non prende neanche in considerazione la possibilità. Come riporta Platone nell’Apologia, davanti ai giudici Socrate afferma: “Allora qualcuno potrebbe dire: – Socrate, ma non riuscirai a vivere stando zitto e tranquillo, una volta allontanatoti da noi? – Convincere qualcuno di voi su questo è la cosa più difficile di tutte. Perché se vi dico che un simile comportamento è disubbidienza al dio e perciò è impossibile, voi non mi credete e pensate che faccia finta; e se vi dico ancora che il più gran bene che può capitare a una persona è discorrere ogni giorno della virtù e del resto, di cui mi sentite discutere e indagare me stesso e gli altri – una vita senza indagine non è degna di essere vissuta – voi mi credete ancor meno. Ma è così come dico, cittadini, per quanto non sia facile convincervene.”

Socrate, poi, non solo rifiuta l’esilio, ma come si legge in un’altra opera, il Critone, rifiuta anche il piano dei suoi allievi per farlo evadere prima dell’esecuzione della condanna a morte. E anche qui ritorna il tema del rapporto fra il filosofo e la città, fra il cittadino e la comunità: non si può rispondere anche a una ingiustizia come una errata condanna a morte – dice Socrate – con un’altra ingiustizia – ovvero quella di violare le leggi. Perché così facendo si verrebbe meno al rispetto della città, e dunque si viene meno alla propria natura, appunto quella di animale sociale.

Sartre e Parigi

Caso opposto è quello di Sartre, esempio fra i massimi di intellettuali impegnati nel secondo dopoguerra, che non esita a prendere voce sui casi più caldi, dalla condanna dalla condanna dell’intervento sovietico a Budapest nel 1956 a quella per la repressione francese della resistenza algerina. Nel 1968 in particolare, Sartre diventa il simbolo della Parigi in rivolta nel cosiddetto maggio francese.

Il suo impegno politico a tutto tondo non è immediato, ma fa parte in realtà di un processo biografico-filosofico che lo conduce da un chiuso individualismo all’idea che l’uomo realizzi la sua esistenza nell’assunzione della responsabilità verso gli altri.

La sua opera filosofica più strutturata, L’essere e il nulla, si fonda infatti sulla tesi per cui “è la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli”. Dietro a questa affermazione nichilista vi è l’idea dell’assurdità dell’esistenza umana e quindi della mancanza di senso della vita. D’altronde Sartre parla anche di uomo come Dio mancato, di colui che inventa obiettivi per dare senso a un’esistenza che senso non ha.

A partire però dall’esperienza della Resistenza nella seconda guerra mondiale, Sartre modifica il proprio approccio: il suo esistenzialismo si schiude e si apre all’idea che l’assurdità della libertà possa essere riscattata nella responsabilità individuale e sociale dell’uomo.

Sartre è molto esplicito su questo tema nel suo intervento L’esistenzialismo è un umanesimo: “Il primo passo dell’esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza. E, quando diciamo che l’uomo è responsabile di se stesso, non intendiamo che l’uomo sia responsabile della sua stretta individualità, ma che gli è responsabile di tutti gli uomini”. Per Sartre la libertà comporta scelte obbligatorie, ma queste scelte non sono mai individuali perché ricadono sempre e comunque sugli altri. Potremmo quindi anche dire così: la nostra soggettività è la cifra della nostra libertà, non la cifra di un nostro essere soli al mondo.

La città come folla

Anche per quanto riguarda il secondo tema, ovvero la città come folla, moltitudine, possiamo derivare due spunti di riflessione alternativi sulla complessità che deriva dall’essere con gli altri:

  1. È il problema del vivere nel mondo del sì, posto da Heidegger
  2. L’altro è l’elogio della solitudine, posto da Schopenhauer

Heidegger e il mondo del SI

Heidegger in Essere e Tempo presenta l’uomo come essere-gettato. L’individuo nasce nel mondo in una certa condizione famigliare, sociale ed è costretto, volente o nolente, a vivere, a fare i conti con la sua esistenza e con l’esistenza dello stare insieme agli altri.

In questo contesto l’individuo si piega alla dimensione del SI, ovvero del conformismo e della riproduzione degli atti altrui. L’uomo in questa dimensione si nasconde negli altri, per rinviare il problema di assumere proprie responsabilità e proprie scelte. Il mondo del SI vuol dire proprio questo: adeguarsi a ciò che comunemente SI dice, SI fa.

La dimensione del SI è complessa, perché ognuno ne è coinvolto: ne siamo tutti permeati, troviamo in questa dimensione una chiave per la sopravvivenza quotidiana. Il problema, dice Heidegger, è evitare che vivere secondo il SI prenda il sopravvento nella nostra esistenza, perché altrimenti perdiamo l’essere noi stessi e cadiamo nelle tre trappole che Heidegger definisce:

-del chiacchiericcio: ovvero il parlare fine a se stesso, senza cercare la verità nei nostri discorsi

-della curiosità: intesa come morbosità del vedere la vita altrui

-dell’equivoco: inteso come idea che la chiacchiera e la curiosità ci dicano tutto, per cui ci culliamo nella falsa illusione di vivere.

Leggiamo un passaggio di Essere e Tempo proprio sulla chiacchiera: “La totale infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica ma un fattore determinante. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime da una comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto”.

Schopenhauer e l’elogio della solitudine

Se in Heidegger il problema del vivere con gli altri è declinato sul tema della chiacchiera, dal vivere in maniera inautentica perché SI fa così, la questione della moltitudine può far emergere anche un altro tema, ovvero come spesso nella moltitudine ci si senta soli. E qui però interviene Schopenhauer che alla solitudine fa un elogio.

La solitudine è sì un qualcosa a cui non si può fuggire, dice il filosofo, ma questo non significa che sia una cosa negativa, se stiamo dentro al quadro della sua visione filosofica. Ricordiamo che per Schopenhauer il motore della nostra vita è la Volontà di Vivere che ci porta in maniera irrazionale a desiderare cose, per cui non viviamo per noi, ma per far vivere questa forza e il dolore di questa condizione è aumentato dalla consapevolezza di essa.

In questa ottica la capacità di stare soli è parte fondamentale del cammino che occorre intraprendere, secondo Schopenhauer, verso la Nouluntas, ovvero la liberazione dalla Volontà, che fra le strade di annullamento della Volontà – ovvero l’arte e la compassione – è la più definitiva.

Scrive infatti il filosofo in Parerga e paralipomena: La vera e profonda pace del cuore e la perfetta tranquillità d’animo, che costituiscono subito dopo la salute il più grande bene terreno, si troveranno soltanto nella solitudine, e come stato d’animo duraturo solo nel più profondo isolamento. Se in tal caso la propria individualità è grande e ricca, si godrà dello stato più felice che possa venir ritrovato su questa povera terra”.

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