I primi due stadi dell’esistenza sono quello etico e quello estetico: nel documento 1 vediamo Kierkegaard analizzare le differenze sostanziali fra l’individuo estetico e l’individuo etico, fra chi vive cercando una costante libertà e chi vive nella dimensione del dovere.
Documento 1: la vita etica e la vita estetica
L’individuo sceglie perciò se stesso come una concretezza molteplicemente determinata, e perciò si sceglie secondo la sua continuità. Questa concretezza è la realtà dell’individuo; ma poiché la sceglie secondo la sua libertà, si può anche dire che è la sua possibilità, o per non usare un’espressione cosí estetica, che è il suo compito. Chi vive esteticamente infatti non fa che vedere ovunque possibilità, queste costituiscono per lui il contenuto del futuro; mentre chi vive eticamente, vede dappertutto compiti. L’individuò dunque vede questa sua reale concretezza come compito, come scopo, come fine. Ma che l’individuo veda la sua possibilità come il suo compito esprime proprio la sua sovranità sopra se stesso, alla quale non rinuncerà mai, anche se d’altra parte non prova gusto nella sovranità del tutto indisturbata che è sempre del re senza regno. Questo dà all’individuo etico una sicurezza che a chi vive solo esteticamente manca del tutto. Chi vive esteticamente attende tutto da fuori.
(Aut-aut)
Ogni scelta comporta un’esclusione. Questo genera nell’individuo sentimenti e stati d’animo che ricadono nella sfera della negatività. La disperazione innanzitutto, come vediamo nel documento 2, ma soprattutto l’angoscia, come si vede nel documento 3: questa condizione è esistenziale, nel senso che è comune a tutti gli uomini, è la cifra stessa dell’uomo, in quanto l’angoscia è l’effetto immediato della nostra libertà.
Documento 2: il dubbio e la disperazione
Il dubbio e la disperazione stanno dunque di casa in due sfere completamente diverse; sono corde assai diverse dell’anima che vengono messe in movimento. Ma questa conclusione non mi soddisfa affatto, perché il dubbio e la disperazione vengono in questo modo coordinati, e questo non deve avvenire. La disperazione è un’espressione molto piú profonda e completa, il suo movimento è molto piú ampio di quello del dubbio. La disperazione è l’espressione di tutta la personalità, il dubbio solo del pensiero. La presunta obiettività del dubbio, che lo rende tanto aristocratico, è proprio, un’espressione, della sua imperfezione. Il dubbio sta perciò nella differenza, la disperazione nell’assoluto.
(Timore e tremore)
Documento 3: l’angoscia
L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni. E nessun grande inquisitore tien pronte torture cosí terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è piú debole, né sa preparare cosí bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare cosí a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte.
(Il concetto di angoscia)
Colui ch’è formato dall’angoscia, è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la piú pesante di tutte le categorie.
L’uscita dall’angoscia sta nella scelta di una vita religiosa. Ma questa scelta è tutt’altro che semplice e scontata. Essa genera grandezza, ma soprattutto isolamento sociale e scandalo: la fede è un vissuto interiore che non può essere socializzato, che ti mette al cospetto del mistero. A rappresentare appieno questa dimensione è la figura simbolica del patriarca Abramo, che si sottomette alla volontà di Dio, generando scandalo nella comunità (documenti 4 e 5).
Documento 4: Abramo e la fede
Ci furono uomini grandi per la loro energia, per la saggezza, la speranza o l’amore. Ma Abramo fu il piú grande di tutti: grande per l’energia la cui forza è debolezza, grande per la saggezza il cui segreto è follía, grande per la speranza la cui forza è demenza, grande per l’amore che è odio di se stesso. Fu per fede che Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa. Lasciò una cosa, la sua ragione terrestre, e un’altra ne prese: la fede.
(Timore e tremore)
Documento 5: Abramo e la fede
È evidente la differenza che separa l’eroe tragico da Abramo. L’eroe tragico rimane ancora nei confini della morale. Per lui ogni espressione della morale ha il suo télos in una espressione superiore della morale; egli riduce il rapporto morale tra padre e figlio o tra figlio e padre a un sentimento, la cui dialettica si riferisce all’idea di moralità. Non è possibile, quindi, che qui si tratti di una sospensione teleologica della morale, in quanto tale.
(Timore e tremore)
on Abramo, è tutta un’altra cosa. Col suo atto egli ha varcato i confini di tutta la sfera morale. Il suo télos è piú in alto, al di sopra dell’etica; in vista di questo télos egli sospende la morale. Perché vorrei sapere come è possibile ricondurre la sua azione al Generale, e se è possibile scoprire, fra la sua condotta e il Generale, un rapporto qualsiasi che non sia quello di aver oltrepassato questo ultimo. Egli non agisce per salvare un popolo, né per difendere l’idea dello stato, né per placare gli dei irritati. Se fosse possibile parlare del corruccio della divinità, quella collera si rivolgerebbe solo contro Abramo, il cui comportamento è tanto strettamente privato e tanto estraneo al Generale. Cosí mentre l’eroe tragico è grande per la sua virtú morale, Abramo lo è per una virtú affatto personale. Nella sua vita la morale non trova espressione piú elevata di questa: il padre deve amare suo figlio. Se nella condotta di Abramo vi fosse traccia del Generale, ciò sarebbe concentrato in Isacco e come nascosto nei suoi fianchi, e griderebbe allora per bocca sua: “Non lo fare, tu distruggi tutto!”.
Perché dunque Abramo lo fa? Per volontà, di Dio, come anche, in modo assolutamente identico, per volontà propria. Egli lo fa per volontà di Dio, perché Dio esige questa prova dalla sua fede, e per volontà propria, per poterla fornire, quella prova.
(….)
L’eroe tragico compie il suo atto in un preciso momento del tempo; ma con la sua azione, egli vive e compie nelle generazioni future un azione non meno grande: visita l’anima piegata sotto la tristezza, colui il cui petto oppresso non può respirare né soffocare per i sospiri, nel turbamento dei suoi pensieri nutriti di lacrime; si mostra a costui, strappa il triste sortilegio, scioglie i legami, asciuga le lacrime; perché l’oppresso dimentica le proprie sofferenze in quelle dell’eroe. Non è possibile piangere su Abramo. Ci si avvicina a lui con un horror religiosus
A chiudere questo rapido percorso una riflessione si Kierkegaard sulla solitudine dell’intellettuale. Come si è visto, le scelte che conducono fuori dall’angoscia in qualche misura non sono comunque liberatorie, perché portano all’isolamento sociale. Kierkegaard riflette su questa solitudine necessaria attraverso la metafora della danza. La danza, metafora dell’opinione, della ricerca della verità, non può essere condivisa, il vero ballo si svolge in solitudine.
Documento 6: “io non ballo”
Qual è allora la mia opinione? Nessuno, per favore, me lo domandi; perché, dopo la questione se io abbia un’opinione, niente può essere più indifferente di sapere qual è la mia. Avere un’opinione è per me qualcosa di troppo e di troppo poco, presuppone una sicurezza e un benessere di esistenza, come nelle vita terrestre l’aver moglie e bambini, ciò che non è concesso a chi deve arrabattarsi giorno e notte senza potersi ancora assicurare il necessario alla vita. Nel mondo dello spirito è proprio questo il caso mio; perché io ho formato e formo me stesso solo per danzare agilmente a servizio del pensiero, all’onore possibilmente di Dio e per mia propria soddisfazione, rinunciando alla felicità familiare e alla pubblica considerazione, alla “communio bonorum”, alla comunanza delle gioie che c’è nell’avere una opinione. E anche se ne avessi qualche ricompensa, anche se, come colui che serve all’altare, anch’io mangio di ciò che viene offerto sull’altare? (1 Cor, 9,13)… Questo riguarda me soltanto. Colui, cui io servo, è – per dirla col gergo degli uomini di finanza – di una consistenza garantita, ma si tratta di ben altra consistenza da quella che intendono i finanzieri. Se invece qualcuno fosse tanto cortese dal concedermi che anch’io abbia un’opinione, se costui spingesse la sua galanteria al punto da accettare per suo conto quest’opinione per il fatto ch’essa era mia; mi dispiacerebbe e per la sua cortesia di essersi rivolto a un oggetto così indegno, e per la sua opinione se egli non avesse altra opinione che la mia. Io posso rischiare la vita, posso scherzare con tutta serietà con la mia vita – non con quella di un altro. È questa l’unica cosa ch’io posso fare per il pensiero, io che non ho un corso accademico da offrirgli, “appena il piccolo corso di lezioni a una dracma, per non dire di un corso grande a cinquanta dracme” (Cratilo). Non ho che la mia vita che io subito metto allo sbaraglio, appena si profila una qualche difficoltà. La danza allora è facile; perché il pensiero della morte è un’abile ballerina, è questo la mia compagna di ballo, ogni altro uomo è per me troppo pesante; e perciò io prego, “per deos obsecro”: nessuno si rivolga a me, io non ballo.
(Briciole filosofiche)