Il processo di Norimberga

Già nel corso della seconda guerra mondiale, mentre gli eserciti degli Alleati e dell’Asse si combattevano in una lotta all’ultimo sangue, sorse il problema di se ed eventualmente come punire i crimini commessi dal nazismo. I “tre grandi”, ovvero il presidente statunitense Roosevelt, il leader sovietico Stalin e il premier inglese Churchill, nei loro incontri infatti, non discutevano solo delle strategie belliche ma anche delle questioni da risolvere nel dopoguerra.

Alla fine, si decise di punire e i crimini nazisti e di utilizzare gli strumenti del procedimento giudiziario per farlo.

Così, alla fine del conflitto, vennero organizzati una serie di processi per giudicare i crimini di guerra. Fra i diversi processi allestiti, il più noto fu il primo che si svolse a Norimberga dal 20 novembre 1945 al primo ottobre 1946, in cui vennero portati in tribunale 24 importanti gerarchi nazisti.

La città fu scelta perché era una delle più simboliche del regime nazista, ma anche per un motivo logistico: il suo palazzo di giustizia era in gran parte intatto alla fine della guerra e al suo interno potevano essere ospitati molti prigionieri.

La scelta di mettere in piedi un processo contro i gerarchi del regime lasciava però aperti problemi di non poco conto: quali mezzi si potevano utilizzare per incriminare e punire qualcuno che ha commesso crimini che non erano ritenuti tali nel suo Paese di provenienza? E ancora: quale sistema penale occorreva utilizzare per giudicare crimini che avevano una ricaduta internazionale?

La soluzione venne individuata in un accordo concluso l’otto agosto 1945: il Patto di Londra. Con questa Carta, veniva stabilito che i processi contro i nazisti andassero svolti incorporando i codici legali sovietico, americano, inglese e francese. Così, con il Patto di Londra nasceva il Tribunale Militare Internazionale.

Creato il sistema di regole secondo cui svolgere il processo, il secondo passaggio riguardava l’individuazione dei reati da contestare ai gerarchi nazisti. Alla fine, ne vennero individuati quattro:

  1. Cospirazione per commettere crimini contro la pace
  2. Pianificazione delle guerre d’aggressione
  3. Crimini di guerra
  4. Crimini contro l’umanità

Dodici dei ventiquattro imputati furono perseguiti contemporaneamente per tutti e quattro i reati.

Ultima questione, prima di poter avviare il processo, era infine quella che riguardava la lingua da adottare nel corso del suo svolgimento. Alla fine, la soluzione individuata, fu quella di utilizzare interpreti per la traduzione simultanea, con lo scopo di permettere a chiunque di seguire i lavori nella propria lingua madre.

A questo punto, il processo poteva iniziare. A guidare l’accusa vi erano quattro procuratori che rappresentavano le potenze alleate: uno sovietico, uno statunitense, uno inglese e uno francese. Ognuno di loro era a sua volta supportato da un team di esperti.
La strategia perseguita dall’accusa fu quella di dimostrare che l’intero sistema che portò alla guerra mondiale e alle atrocità commesse nel corso del conflitto era da attribuire a una responsabilità diretta dei gerarchi nazisti alla sbarra.

A loro volta, gli incriminati erano difesi da avvocati di loro scelta che incentrarono la strategia difensiva sulla non punibilità dei fatti. L’idea che veniva sostenuta, infatti, era che quelli che al processo vengono perseguiti come crimini, non erano considerati tali nel momento in cui venivano compiuti.

La parte più tragicamente spettacolare del processo fu certamente quella che riguardò i campi di concentramento e la persecuzione degli ebrei.  Per la prima volta, grazie al processo, vennero mostrati documenti, immagini e testimonianze sulle atrocità sperimentate ad Auschwitz e nell’intera rete dei campi disseminata in tutta Europa. Di fronte alla commozione e allo shock per i drammi rilevati, la difesa degli imputati sostenne la tesi dell’impossibilità di non eseguire gli ordini provenienti dall’alto.

Alla fine del processo i giudici si presero due giorni determinare la loro sentenza. Dei 24 imputati 12 furono condannati a morte, ma alcuni riuscirono a suicidarsi prima dell’esecuzione della condanna. Fra questi vi era uno dei più importanti gerarchi nazisti, Hermann Goring, che all’apice della sua carriera era stato Maresciallo del Reich. I condannati a morte furono impiccati e le loro ceneri disperse in un fiume.
Altri 7 imputati furono condannati all’ergastolo, quattro vennero invece giudicati colpevoli con condanne che andavano dai 10 ai 20 anni. Fra questi vi era Albert Speer. Ministro degli armamenti negli anni della guerra, era stato processato a Norimberga per aver utilizzato la manodopera in condizioni di schiavitù per mandare avanti l’industria bellica tedesca. A differenza della gran parte degli altri imputati, comprese che quello che più premeva agli Alleati era ottenere un’ammissione di colpa. Così Speer prese le distanze dalle sue azioni, chiedendo scusa per la propria responsabilità. Questo atteggiamento gli avrebbe evitato la condanna a morte. Punito a venti anni di carcere, nel 1966 sarebbe tornato in libertà vivendo poi per altri quindici anni.

Fra i ventiquattro imputati non vi furono comunque solo condannati. Tre di essi furono infatti assolti dai reati contestati. Fra questi vi era Hjalmar Schacht, che era stato ministro dell’economia prima della guerra, ma nel corso del conflitto era caduto in disgrazia finendo addirittura rinchiuso in un campo di concentramento, il che certamente ebbe un peso non irrilevante nella scelta di assolverlo.

Due imputati, infine, non vennero processati. Uno era Robert Ley, capo del sindacato del Fronte tedesco del lavoro, che si suicidò prima dell’inizio dei lavori. L’altro Gustav Krupp, fra i più importanti imprenditori tedeschi legati al regime, che però al tempo del processo ormai era affetto da demenza senile.

Con le sentenze comminate si chiudeva così il processo di Norimberga che, per la prima volta nella storia, era il risultato di un sistema di giustizia internazionale: questo modello in seguito avrebbe ispirato la creazione di organismi come la Corte internazionale di giustizia dell’Onu.

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