Pubblichiamo una serie di documenti storiografici che illuminano la figura dell’imperatore Federico II di Svevia (1220-1250), una delle figure più significative dell’epoca del Basso Medioevo.


FEDERICO II VISTO DA UN GUELFO

Estratto della cronaca del francescano Salimbene de Adam, fiero partigiano delle forze guelfe

Nota che Federico quasi sempre amò aver discordia con la Chiesa, e la contrastò in molti modi. Proprio la Chiesa, che lo aveva nutrito e difeso ed elevato. Della fede in Dio non ne aveva neanche un po’. Era un uomo astuto, sagace, avido, lussurioso, malizioso, iracondo. E fu uomo valente qualche volta, quando volle dimostrare le sue buone qualità e cortesie: sollazzevole, allegro, delizioso, industre. Sapeva leggere, scrivere e cantare; e sapeva comporre cantilene e canzoni. Fu bell’uomo e ben formato, ma era di statura media. […] Ancora, sapeva parlare molte e svariate lingue. E, per farla corta, se fosse stato veramente cattolico e avesse amato Dio e la Chiesa e la propria anima, avrebbe avuto al mondo pochi uguali a lui nell’autorità. Ma poiché è scritto che un poco di lievito fa fermentare tutta la massa1, egli guastò tutte le sue buone qualità col fatto che perseguitò la Chiesa di Dio. E non l’avrebbe perseguitata, se avesse amato Dio e la propria anima. […] Ora dobbiamo parlare delle arbitrarie stranezze di Federico. La prima di queste fu che fece mozzare il pollice a un notaio, perché aveva scritto il suo nome diversamente da come lui voleva. Voleva infatti che nella prima sillaba del suo nome mettesse la i, in questa maniera: Fridericus, e quello lo aveva scritto con la e, mettendoci la seconda vocale in questo modo: Fredericus. La sua seconda stranezza fu che volle sperimentare quale lingua e idioma avessero i bambini, arrivando all’adolescenza, senza aver mai potuto parlare con nessuno. E perciò diede ordine alle balie e alle nutrici di dare il latte agli infanti, e lasciar loro succhiare le mammelle, di far loro il bagno, di tenerli netti e puliti, ma con la proibizione di vezzeggiarli in alcun modo, e con la proibizione di parlargli. Voleva infatti conoscere se parlassero la lingua ebrea, che fu la prima, oppure la greca, o la latina o l’arabica; o se non parlassero sempre la lingua dei propri genitori, dai quali erano nati. Ma s’affaticò senza risultato, perché i bambini o infanti morivano tutti. Infatti non potrebbero vivere senza quel batter le mani, e senza quegli altri gesti, e senza l’espressione sorridente del volto, e senza le carezze delle loro balie e nutrici. […] La sua terza stranezza fu che quando vide la terra d’oltremare — che era la terra promessa, che Dio tante volte aveva lodato, chiamandola «terra sgorgante latte e miele» ed eccellente su tutte le terre — non gli piacque e disse che il Dio dei Giudei non conosceva la sua terra, cioè la Terra di Lavoro, la Calabria e la Sicilia e la Puglia, diversamente non avrebbe tante volte lodato la terra che promise e diede ai Giudei. Dei quali anche si dice che ebbero a vile un paese desiderabile . […] E molte altre stranezze e singolarità e maledizioni e scetticismo e malizie e prevaricazioni ebbe ugualmente Federico, delle quali ne raccontai alcune in altra cronaca. Come di un uomo che fece chiudere vivo in una veggia fino a che vi morisse, per dimostrare che l’anima si annientava completamente; quasi che dicesse le parole di Isaia 22: Ecco la gioia e l’allegrezza, ammazzare vitelli e scannare capretti, mangiare carni e bere vino. Mangiamo e beviamo! Tanto domani moriremo. Era infatti un epicureo. E per questo cercava di trovare nella sacra Scrittura egli stesso e per mezzo degli intellettuali della sua corte quei passi che potevano essere interpretati a sostegno della tesi che non c’è altra vita dopo la morte.

FEDERICO II VISTO DAI MUSULMANI

Estratto della cronaca dell’arrivo di Federico II a Gerusalemme nel 1229, da parte del cronista arabo Sibt Ibn Al-Giawzi, il quale dedica un ritratto alla figura dell’imperatore nella sua vasta opera: “Lo specchio del tempo”.

Entrò l’Imperatore in Gerusalemme, mentre Damasco era cinta d’assedio. In questa sua visita occorsero vari curiosi incidenti: uno di questi fu che quando entrò nel Santuario della Roccia vide un prete seduto presso l’impronta del Sacro piede, che prendeva dei fogli dai Franchi; egli andò alla sua volta come se volesse chiederne la benedizione, e gli dette un pugno buttandolo a terra: «Porco, — esclamò, — il Sultano ci ha fatto il favore di farci visitar questo luogo, e voi state a fare qui azioni simili! Se uno di voi penetra ancora qui a questo modo, lo ammazzo!». La scena fu raccontata dagli addetti alla Roccia, che narrarono anche questa: egli guardò l’iscrizione corrente nell’interno del Santuario, che dice «Saladino purificò dai Politeisti questa città di Gerusalemme…», e domandò: «Chi sarebbero questi Politeisti?» Domandò anche agli addetti al Santuario: «Queste reti sulle porte della Roccia, a che servono?» Risposero: «Perché non ci entrino i passerotti», e lui: «E Dio vi ha condotti qui invece i giganti!». Venuto poi il tempo della preghiera del mezzogiorno, e risonato l’appello dei muèzzin, si levarono tutti i suoi paggi e valletti, e il suo maestro, un Siciliano con cui leggeva la Logica nei suoi vari capitoli, e fecero la preghiera canonica, ché eran tutti musulmani. L’Imperatore, raccontarono sempre quegli inservienti, era di pel rosso, calvo, miope: fosse stato uno schiavo, non sarebbe valso duecento dirham. Ed era evidente dai suoi discorsi che era un materialista, che del Cristianesimo si faceva semplice gioco. Al-Kamil aveva ordinato al cadi di Nabulus Shams ad-din di dar istruzioni ai muèzzin affinché per tutta la durata del soggiorno dell’Imperatore in Gerusalemme non salissero sui minareti e non lanciassero l’appello alla preghiera nella zona sacra. Il cadi si era scordato di avvertire i muèzzin, e così il muèzzin ‘Abd al-Karìm quella notte al tempo dell’alba montò sul minareto, mentre l’Imperatore alloggiava in casa del cadi, e prese a recitare i versetti coranici sui Cristiani, come «Iddio non si è preso figlio alcuno» riferentesi a Gesù figlio di Maria, e simili. Al mattino, il cadi chiamò ‘Abd al-Karìm, e gli disse: «Cos’hai fatto? Il Sultano ha ordinato così e così». Rispose l’altro: «Tu non me ne avevi informato, mi rincresce», e così la seconda notte non salì sul minareto. Al mattino seguente, l’Imperatore chiamò il cadi, che era entrato in Gerusalemme addetto al suo servizio, e fu lui che gli fece la consegna della città: «O cadi, — disse, — dov’è quell’uomo che salì ieri sul minareto e disse quelle parole?» Quegli lo informò che il Sultano gli aveva fatto quella raccomandazione: «Avete fatto male, o cadi, — ribatté l’Imperatore; — volete voi alterare il vostro rito e la vostra Legge e fede per cagion mia? Se foste voi presso di me nel mio paese, sospenderei io forse il suono delle campane per cagion vostra? Perdio, non lo fate; questa è la prima cosa in cui vi troviamo in difetto».

LE COSTITUZIONI MELFITANE

Estratto di un passaggio dell’impianto legislativo emanato da Federico nel 1231 per il regno di Sicilia

Ordiniamo nuovamente di distruggere immediatamente, ripetendo una nostra disposizione, i castelli, le fortificazioni e le torri che sono stati costruiti dopo la morte del re Guglielmo di santa memoria, nostro cugino, e per la conservazione dei quali noi precedentemente non abbiamo concesso il permesso, come fu stabilito nell’assemblea del regno tenutasi a Capua; minacciamo la pena della confisca dello stesso castello o del nuovo edificio per coloro che trascureranno le nostre disposizioni, tralasciando di distruggere tali costruzioni entro il prossimo Natale. E alla presente sanzione aggiungiamo che nessuno può ricostruire fortificazioni distrutte senza il nostro esplicito comando. Proibiamo di costruire in futuro nel nostro demanio edifici con cui si possa impedire o la difesa del luogo stesso o la fortificazione o il libero ingresso e la libera uscita. Nei suddetti luoghi espressamente vietiamo di erigere torri per iniziativa di privati. Crediamo che possano essere ampiamente sufficienti a tutti i fedeli del nostro regno le nostre fortificazioni e, ciò che dà maggior sicurezza, la difesa della nostra protezione

INNOCENZO IV: LA DEPOSIZIONE DI FEDERICO

Bolla papale del 1245 emanata nel concilio di Lione, in cui viene predisposta lo scioglimento dell’obbligo di fedeltà dei sudditi nei confronti di Federico

Il vescovo Innocenzo, servo dei servi di Dio, al presente santo concilio a eterno documento dell’accaduto.

L’imperatore si è reso colpevole di quattro gravi offese, che non si possono ignorare (e per il momento non diciamo nulla degli altri suoi delitti); ha abiurato Dio in innumerevoli occasioni; ha rotto sconsideratamente la pace appena ristabilita tra la Chiesa e l’Impero; ha inoltre commesso sacrilegio facendo imprigionare i cardinali della Santa Chiesa Romana e i prelati ed ecclesiastici, regolari e secolari delle altre chiese, che si recavano al concilio, proclamato dal nostro predecessore; è anche accusato di eresia, le cui prove non sono dubbie e poco consistenti, ma certe e schiaccianti.

È assolutamente manifesto che egli ha commesso molti spergiuri. Una volta mentre si trovava in Sicilia, prima di essere eletto alla dignità imperiale, egli pronunciò dinanzi a G. di felice memoria, cardinale-diacono di san Teodoro e legato della Santa Sede, un giuramento di fedeltà al papa Innocenzo, nostro predecessore benedetto, e ai suoi successori nella Chiesa di Roma, per la concessione fattagli dalla stessa Chiesa del regno di Sicilia, e, come si è detto, ripeté il giuramento, quando, dopo essere stato eletto imperatore, venne a Roma e alla presenza del summenzionato Innocenzo e dei suoi confratelli, e di molti altri, rimise nelle mani di lui l’atto di sottomissione. Poi, ritornato in Germania, egli promise con giuramento tanto al predetto Innocenzo, quanto, dopo la sua morte, al papa Onorio di benedetta memoria, nostro predecessore, ai suoi successori e alla stessa Chiesa di Roma, in presenza di principi e nobili dell’Impero, di difendere e proteggere sinceramente e con tutte le sue forze, i privilegi, le leggi e i possedimenti della Chiesa di Roma, che promise anche di risarcire senza prevaricazione di quanto fosse venuto in suo possesso di quei possedimenti esplicitamente menzionati in quel giuramento; e più tardi, ricevuta già la corona imperiale, confermò quanto sopra. Ma egli è divenuto un impudente violatore di questi tre giuramenti, non senza infame tradimento e crimine “lesae majestatis”; perché egli osò indirizzare lettere di minaccia contro il nostro predecessore Gregorio e i suoi confratelli, a quegli stessi confratelli, ed osò diffamare il detto Gregorio presso i suoi confratelli, […] Per di più egli ha tentato con tutte le sue forze di ridurre o togliere alla stessa Chiesa il privilegio, che Nostro Signore Gesù Cristo trasmise al santo Pietro e ai suoi successori, ossia: «Qualunque cosa tu legherai in terra, sarà legata anche in Cielo, e qualunque cosa scioglierai in terra, sarà sciolta anche in Cielo», in cui invero sono racchiusi il potere e l’autorità della Chiesa di Roma; egli scrisse che non temeva le sentenze del predetto Gregorio e non solo rifiutò di osservare la scomunica gettata dal Papa su di lui, disprezzando le chiavi della Chiesa, ma costringendo altri, con pressioni sue o dei suoi ufficiali, a non osservarla al pari di altre sentenze di scomunica o di interdetto, che egli ignorò sotto ogni rispetto. Fece anche distruggere le mura e le fortezze dei possedimenti della stessa Chiesa Romana, che non temette di occupare e che ancora occupa, segnatamente le Marche, il Ducato (di Roma) e Benevento e altri domini della Chiesa in Toscana, Lombardia e altrove, pochi eccettuati. E come se non gli bastasse, così facendo, di violare apertamente i giuramenti da lui pronunciati, egli costrinse gli abitanti di quei possedimenti, con pressioni sue o dei suoi ufficiali, a commettere spergiuro; li sciolse “de facto”, se non “de jure”, dai giuramenti di fedeltà, con cui erano legati alla Chiesa Romana, fece loro abiurare detta fedeltà e li legò a se stesso con un simile giuramento di fedeltà.

[…] E non solo egli fece togliere secondo i suoi desideri, alle sopraddette chiese, privilegi e possessi, ma anche, spregiando la sacra liturgia, lasciò che fossero depredate di croci, turiboli, calici e dei loro sacri tesori come dei paramenti di seta, che si disse fossero stati restituiti almeno in parte alle chiese, però non prima che fosse pagato per essi un riscatto. Vengono inflitte agli ecclesiastici pesanti tasse e imposte, ed essi sono costretti non solo a comparire dinanzi ai tribunali di giustizia secolari, ma anche a subire giudizi di Dio a mezzo di duelli, e vengono imprigionati, giustiziati e torturati a turbamento e vergogna della dignità ecclesiastica. […]

Inoltre è stata elevata contro di lui accusa di perversità eretica, perché […] egli disprezzò e ancora disprezza l’autorità della Chiesa, facendosi celebrare, o piuttosto, per quanto gli è possibile, profanando i Divini Misteri, ed ha ripetutamente asserito, come è stato detto precedentemente, che egli non temeva le sentenze del nominato papa Gregorio. Si è anche legato in detestabile amicizia con i Saraceni, cui inviò doni e messaggeri in molte occasioni, accogliendo con gioia ed onori quelli mandatigli dagli stessi; abbracciò le loro usanze, osservandole apertamente nella sua vita quotidiana, poiché egli non arrossì di porre a guardia delle donne di stirpe regale, che egli teneva come mogli, degli eunuchi, e specialmente quelli che, come è stato ripetutamente esposto, egli aveva fatto render tali. Ciò che è maggiormente abominevole è che una volta, trovandosi in quei paesi oltre il mare, fece un trattato o piuttosto una congiura col Sultano e permise che il nome di Maometto fosse pubblicamente pronunciato nel Tempio del Signore, notte e giorno. […]

In aggiunta a tutto questo egli ha talmente oppresso e ridotto in servitù il regno di Sicilia (che è speciale patrimonio di san Pietro e che il detto principe ebbe come feudo dalla Sede Apostolica) negli affari ecclesiastici e secolari, che laici ed ecclesiastici insieme sono stati ridotti a non possedere quasi nulla e gli onestuomini ad allontanarsene, mentre egli costringe quelli che vi rimangono a vivere quasi in stato di schiavitù e ad offendere ripetutamente la Chiesa Romana – della quale sono principalmente soggetti e vassalli – ed a combatterla come nemici. Egli può anche essere giustamente condannato, poiché ha omesso per nove anni di pagare la somma annuale di 1.000 scyphati, che egli deve alla Chiesa di Roma per il regno. Perciò Noi, che siamo vicario, sebbene indegnamente, di Gesù Cristo in terra e a cui fu detto per il santo Apostolo Pietro: «Qualunque cosa tu legherai in terra, ecc.», noi attestiamo e dichiariamo che a causa dei summenzionati vergognosi delitti e di molti altri, dopo accurata consultazione con i nostri confratelli e il santo concilio, il predetto principe – il quale si è reso così indegno degli onori e della dignità dell’impero e del regno, e che da Dio è stato respinto dalla dignità di re o di imperatore — è incatenato dai suoi peccati ed espulso e privato da Dio di ogni onore e dignità; noi pure aggiungiamo la nostra sentenza di deposizione; sciogliamo per sempre tutti coloro, che gli son legati dal giuramento di fedeltà, da giuramento di tal sorta, e rigorosamente proibiamo con l’apostolica autorità che chiunque da questo momento in poi gli obbedisca o lo riguardi come re o imperatore, e decretiamo che chiunque in futuro gli darà aiuto, consiglio o sostegno, come se fosse ancora imperatore o re, incorrerà «ipso facto» nella sentenza di scomunica. Anzi coloro cui nel medesimo regno spetta l’elezione dell’imperatore, eleggano liberamente un successore, e sarà nostra cura provvedere al predetto regno di Sicilia, come ci parrà meglio e con il consiglio dei nostri confratelli.

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